Libia, tutti i misteri sul sequestro e il dramma dei tecnici italiani
Otto mesi di prigionia, una lunga finestra di silenzio, poi il susseguirsi di notizie dalla Libia quasi in attese, tutte concentrate in pochi giorni. Da quelle terribili, la morte di Salvatore Failla e Fausto Piano, a quelle più liete, ossia la liberazione dei due colleghi Filippo Calcagno e Gino Pollicardo. In mezzo, però, tantissime domande e dubbi su cosa ha portato i quattro tecnici della Bonatti nelle mani dei sequestratori nord-africani, e su come poi si è arrivati all’epilogo della scorsa settimana. Ad alcuni giorni di distanza dal ritorno in Italia dei due italiani rimasti in vita, le indagini degli inquirenti e le prime interviste cominciano a portare maggior chiarezza sulla vicenda, lasciando però ancora inevasi alcuni punti di domanda.
Il sequestro, perché avvenne. 19 luglio, i 4 tecnici arrivano dalla Tunisia e salgono su un mezzo per raggiungere l’impianto petrolifero di Mellitah. Vengono però fermati lungo la strada e sequestrati, mentre l’autista (un uomo arabo) viene allontanato senza subire nulla. Al di là dei tanti sospetti su quest’ultimo, la domanda che ancora rimane agli inquirenti è perché si sia deciso di affrontare quello spostamento in auto e non via mare, previsto all’inizio perché più sicuro.
Chi ha sequestrato i 4 italiani. Un’altra delle domande che ancora non ha trovato risposta. Malviventi comuni o una cellula dell’Isis? «Non vendeteci allo Stato Islamico», avevano supplicato i 4 tecnici durante la prigionia. «Tranquilli, non lo faremo», gli risposero. Ma qualche dubbio che i sequestratori fossero jihadisti legati al Califfato è ancora forte: «Non so se eravamo in mano all'Isis o a delinquenti. Lo stabiliranno altri. Ma certamente eravamo tenuti da criminali. Perché solo criminali possono fare queste cose. C'erano delle donne e un bambino... una famiglia di delinquenti e di criminali».
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Dove sono stati tenuti. Il luogo di prigionia rimane un mistero, così come cosa gli sia capitato da luglio a gennaio. Con l’inizio dell’anno nuovo sono iniziati i contatti tra sequestratori e intelligence italiana, che è stata così in grado di localizzare gli uomini a Sabratha. Una città dalla conflittualità estrema, divisa in fazioni diverse e popolata da tanti jihadisti tunisini. Come spega l’Huffington Post, il bombardamento americano del 19 febbraio proprio contro una zona controllata dallo Stato Islamico (49 morti) avrebbe ritardato le operazioni di rilascio, rimandate così ai primi giorni di marzo.
La morte di Failla e Piano. Perché i quattro italiani sono stati divisi? Forse proprio per rendere più complesse le operazioni di rilascio, che i servizi segreti avevano concordato che sarebbero avvenute all’esterno della città. Ma il convoglio dove viaggiano i due uomini (assieme a 5 sequestratori, una donna e un bambino), viene attaccato dalle milizie locali: erano sì state avvertite della trattativa, ma forse hanno scambiato il gruppo per un commando di jihadisti, e ha aperto il fuoco. Failla e Piano vengono feriti gravemente, e in seguono muoiono.
La fuga di Pollicardo e Calcagno. Gli altri due ostaggi, rimasti nel frattempo in una prigione, si trovano ad un certo punto senza guardia. Pare che i criminali rimasti a controllarli siano scappati alla notizia del fallimento dello scambio. «Ci avevano detto che era tutto finito e ci hanno abbandonato mentre noi siamo rimasti dentro», ha raccontato Filippo Calcagno. «Ci chiedevamo perché. Da allora ho lavorato molto su quella porta dietro la quale eravamo rinchiusi. Con un chiodo ho capito che si poteva fare molto. Ho lavorato sulla serratura, un legno duro, ma con la caparbia ho indebolito la parte. Poi ho chiamato Gino: “Forza, se dai due colpi siamo fuori”, gli dicevo. E così è stato. Dopo avere superato la prima porta, pensavamo che c'era la porta esterna, ma si è aperta facilmente. Ci siamo camuffati perché avevamo paura che qualche altro gruppo ci prendesse e una volta fuori cercavamo la polizia che pensavamo fosse l'unica a poterci aiutarci. Il buon Dio ci ha messo sulla strada giusta. Poi sono tornato indietro con la polizia per il riconoscimento della casa».
Il riscatto. È stato pagato? La Libia ha protestato nei giorni scorsi, affermando che sarebbe stato un grave errore se l’Italia avesse dato dei soldi a qualcuno per liberare i quattro uomini. Ma prima Giacomo Stucchi, presidente del Copasir, poi il ministro Gentiloni hanno negato questa eventualità: «Non è stato pagato alcun riscatto. La ricerca della verità è doverosa ma questo non vuol dire in alcun modo avallare voci e insinuazioni che provengono da un contesto interessato ovviamente a ogni forma di strumentalizzazione», ha detto il titolare della Farnesina.