Preservare la memoria

Pablo, argentino, è vivo Storia di un desaparecido

Pablo, argentino, è vivo Storia di un desaparecido
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La storia di un desaparecido sopravvissuto per non dimenticare l’orrore della dittatura militare argentina. Giovedì 28 aprile alla Fiera dei Librai è intervenuto Pablo Alejandro Diaz. Si tratta dell’unico sopravvissuto e testimone della "Notte delle matite", avvenuta il 16 settembre 1976, nella quale furono sequestrati e poi detenuti, torturati e uccisi alcuni studenti dai 16 ai 18 anni, colpevoli di aver manifestato contro l’abolizione del tesserino che garantiva agli studenti dei prezzi scontati per i biglietti degli autobus. Hanno introdotto l’ospite la docente Benedetta Calandra, che insegna Storia dei Paesi dell’America latina presso l’Università di Bergamo, e Riccardo Corsi, tra gli ideatori della casa editrice indipendente Portatori d’acqua.

Preservare la memoria. Questa casa editrice ha infatti pensato di ripubblicare il libro che racconta la vicenda di Pablo Diaz, dal titolo La notte dei Lapis - La memoria dei desaparecidos; «Sia perché non si trovava più nelle librerie, ed era un peccato, sia perché riteniamo questo libro particolarmente simbolico – ha detto Corsi –. Rappresenta appieno la funzione della memoria: portare il passato nel presente, magari anche per cambiarlo, renderlo diverso». Una memoria che si oppone a quello che invece era un tentativo di rimozione, di annullamento, come ha spiegato la professoressa Calandra: «In Argentina ci furono decine di migliaia di desaparecidos: sparendo anche i corpi, queste persone non potevano essere considerate né morte né vive. I familiari non potevano elaborare il lutto perché era un lutto senza corpo, senza tempo e senza luogo», una rimozione totale.

 

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Il movimento studentesco. Tutto nasce dai movimenti studenteschi dei primi anni Settanta a La Plata, ha esordito Pablo Diaz: «Nel 1973 gli studenti della città cercavano di coordinarsi per capire e risolvere i problemi; 19 scuole superiori erano organizzate nel movimento. Si affrontavano anche problemi grossi: nel ’74 portammo avanti una campagna di alfabetizzazione nei quartieri poveri. Sempre in quell’anno, mille studenti si diffusero nella provincia, aiutando nelle pulizie degli ambienti per arginare una brutta infezione scoppiata in quel periodo». Nel 1975 la crisi economica spinse gli studenti a chiedere un aiuto allo Stato per sostenere il costo dei biglietti dell’autobus, necessari a spostarsi dalla scuola ai campi sportivi dove si praticava l’educazione fisica. «Diecimila studenti scesero in strada a manifestare; lo Stato era restio a concedere l’aiuto perché i trasporti erano privati e i politici appoggiavano queste aziende. Ma alla fine riuscimmo ad ottenere un tesserino che garantiva prezzi ribassati: è in vigore ancora oggi».

La dittatura militare. «Quando avvenne, nel marzo 1976, non avevamo idea che sarebbe stato il colpo di stato argentino per eccellenza. Ci fu subito una forte repressione: chiusero il movimento studentesco e annullarono ogni forma di dialogo. Ma il movimento continuava in clandestinità e anzi diventava più forte e critico man mano che la dittatura si faceva più severa». Dopo alcuni mesi però la repressione si fece capillare: furono vietate le riunioni anche di tre sole persone, venne individuato a La Plata un forte nucleo di studenti delle scuole secondarie potenzialmente sovversivi. «Quando fu abolito il tesserino dell’autobus, noi studenti manifestammo di nuovo; in questo modo il regime poté individuare tutti gli elementi più attivi, da reprimere».

 

 

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L’orrore. Nel settembre furono arrestati molti studenti, sette leader furono sequestrati e in seguito uccisi, per dare una lezione a tutto il movimento. Pablo era tra i sequestrati, ma riuscì a salvarsi: «Dopo una settimana di torture, ci portarono al Pozzo di Banfield, dove restammo per tre mesi. Fu un’esperienza terribile, soprattutto per ragazzi giovani come noi, tra violenze, stupri, assenza di luce, nudità assoluta. Erano lì presenti alcune donne incinte e toccava a noi assisterle in qualche modo. Il ricordo di una madre di queste, assistita dalla mia amica Maria Claudia Falcone, permise anni dopo di condannare un generale».

Il giovanissimo Pablo si era sempre chiesto per quale motivo nei lager nazisti gli ebrei non si ribellavano: «In quei giorni tremendi  ho trovato la risposta: è l’illusione della speranza che fa andare avanti. Con Claudia Falcone parlavo di quando saremmo usciti. Ma lei non vide mai più la luce del sole: diceva che non sarebbe mai più stata donna, perché era stata violentata. La stuprarono diverse volte anche prima di decidere di ucciderla, non voglio pensare a quante volte lo rifecero dopo aver stabilito il suo destino». Commenta poi caustico: «Nonostante sapessi tutto ciò, solamente l’anno scorso, a 39 anni di distanza dai fatti, un giudice mi ha chiesto di testimoniare su questi aspetti della prigionia».

 

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La testimonianza. Da quando uscì, l’ossessione di Pablo fu sempre quella di far riapparire i desaparecidos, testimoniare in ogni modo la sua vicenda e ricordare i compagni trucidati. «Ho voluto fare sia il film (La notte delle matite spezzate di Héctor Olivera, ndr), perché il cinema è simbolicamente molto forte ed efficace, sia il libro, che invece racconta i fatti in modo più dettagliato. La memoria è l’unico modo per tenere vivi quei poveri ragazzi: come Werther continuava a scrivere a Charlotte anche dopo la sua morte, così ho fatto io con Claudia, per tenerla viva nella memoria. Allo stesso modo, spero che d’ora in poi queste persone e questi fatti possano continuare ad esistere attraverso la memoria di voi che mi avete ascoltato».

 

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