La polemica nel M5S su Pizzarotti Paradigma di una svolta che non c’è

Il Movimento 5 Stelle è nel pieno di una lacerante lotta intestina: da un parte, il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, espulso pochi giorni fa per motivi di cui a breve, e una cospicua rappresentanza del Movimento a lui vicina; dall’altra, il direttorio pentastellato, in particolare Luigi Di Maio. Si tratta di una faida che cela problematiche ben più grandi, scoppiate nell’ultimo anno in seguito alla virata decisa che il M5S ha preso verso una vita partitica più tradizionale, e al venir meno, per motivi notoriamente differenti, delle leadership di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Cerchiamo di capire, allora, cosa sta succedendo all’interno del mondo grillino.
Il caso Pizzarotti. L’epicentro dell’attuale terremoto è Parma: nelle scorse settimane è emerso che il sindaco grillino del comune emiliano Federico Pizzarotti risulta indagato per abuso d’ufficio nell’ambito della nomina del direttore del teatro Regio. Una macchia sul curriculum che, secondo il credo pentastellato, dovrebbe comportare le dimissioni più o meno immediate da parte del soggetto coinvolto, a maggior ragione per il fatto di averne tenuto all’oscuro i vertici del Movimento. Al di là dell’assurdità di una pratica che, sostanzialmente, bolla come colpevole una persona che è semplicemente indagata, la risposta di Pizzarotti è arrivata celere: caro direttorio, sono mesi che richiedo un incontro con voi per discutere dell’avviso di garanzia pervenutomi, ma non ho mai ricevuto risposta; come potete ora espellermi così su due piedi? A certificare il tutto, Pizzarotti ha pubblicato sulla propria pagina Facebook gli screenshot degli sms e delle mail con cui chiedeva a gran voce di poter parlare, in particolare, con Luigi Di Maio, responsabile del Movimento per i rapporti con i Comuni. Il sindaco ha dunque deciso di non dimettersi, sostenuto dalla maggior parte dei consiglieri comunali eletti fra le fila del M5S. Bisogna sottolineare che l’ultima parola sull’espulsione di Pizzarotti l’ha avuta Davide Casaleggio, figlio del defunto Gianroberto e nuovo guru del Movimento: un particolare che, come vedremo a breve, è particolarmente significativo.
Il Movimento si spacca. La querelle assume, naturalmente, dimensioni pubbliche, e sul blog del M5S (che dall’uscita di scena di Grillo ha assunto il nome di “blog delle Stelle”) infuria il dibattito fra gli iscritti: molti sono favorevoli al pugno di ferro adottato dal direttorio, ma quasi la metà degli intervenuti nella discussione hanno trovato privo di logica e di senso (specie a ridosso di una tornata elettorale) il comportamento dei vertici, schierandosi apertamente dalla parte di Pizzarotti. Anche alcuni parlamentari grillini hanno deciso di far sentire la propria voce in difesa del sindaco di Parma: la senatrice Elisa Bulgarelli, commentando l’espulsione, ha dichiarato che “oggi il Partito 5 Stelle esulta, mentre il Movimento 5 Stelle muore un altro po’; io sto nel Movimento 5 Stelle e rifiuto il partito”.
La sfida di Pizzarotti. Le spallucce fatte in questi giorni dal direttorio (Di Maio ha dichiarato che c’è un regolamento e va rispettato: “Noi non siamo il Partito democratico”) hanno ulteriormente rafforzato la volontà di Pizzarotti di non farsi mettere i piedi in testa dai vertici del M5S: parla di scorrettezza, di profonda delusione, di trattamenti ad personam e, soprattutto, decide di sfidare Di Maio e soci con l’arma per eccellenza del Movimento: lo streaming, attraverso il quale il sindaco chiede di essere giudicato dal direttorio di fronte a tutto il popolo grillino. Quel che è certo è che Pizzarotti, un tempo grande orgoglio del M5S in qualità di primo candidato a prendersi un Comune di rilievo nella storia pentastellata, conosce bene la realtà grillina, tanto la base popolare quanto l’apice della piramide, e sa come muovercisi: sta portando la battaglia con Di Maio, Di Battista e Fico sul piano della trasparenza, della correttezza, dell’ampio respiro della gestione popolare del Movimento opposta all’aria stantia delle stanze dell’oligarchia direttoriale che negli ultimi mesi ha preso il controllo del movimento dei cittadini che fu. Potremmo essere in procinto di assistere, insomma, ad un clamoroso contrappasso. Ma è presto per fare previsioni.
La svolta che non riesce a compiersi. Ampliando la riflessione al M5S tutto, è evidente come da diverso tempo a questa parte si stia tentando di abbandonare la forma organizzativa del blog, dell’uno vale uno, della democrazia direttissima e dei meet up in favore di una struttura partitica tradizionale, con un gruppo al vertice definito e accettato, che sia incaricato di dialogare con le istituzioni (l’accento è sull’apertura, sia chiaro), e un rapporto con gli elettori mediato dalla presenza dei membri dei vari consigli e gruppi parlamentari. Una normalizzazione, insomma, che se da un lato pone il M5S in una posizione di maggior credibilità politica, dall’altro apre a diverse problematiche. In primo luogo, un allineamento con i metodi e i modus operandi tipici dei partiti, ovvero quanto i ragazzotti del “vaffa” hanno sempre combattuto fin dalla prima ora: sarà compresa dalla base elettorale la necessità di una svolta di questo genere? In secondo luogo, non è sufficiente, per diventare partito, stabilire cinque-sei leader che decidano tutto e darsi qualche regola in più: occorre un’articolata gerarchia interna, rappresentanti territoriali, divisione delle mansioni e delle competenze. L’impressione è che si sia creduto che per poter competere in via definitiva con gli avversari politici, Pd su tutti, sarebbe stato sufficiente lasciar intendere a tutti che non decide più il blog con i suoi iscritti ma il direttorio di vertice. Un partito, si capisce, non può nemmeno lontanamente strutturarsi in una maniera così semplicistica. Lo scotto da pagare è l’incomunicabilità interna, la perplessità degli elettori e le incomprensioni su a chi rivolgersi, quando e come: l’esempio di Pizzarotti è lampante.
Chi comanda? C’è poi lo spinoso caso della leadership: fino a poco tempo fa, qualsiasi problema o divergenza veniva portato all’altare di Grillo e di Casaleggio, e gli oracoli si esprimevano con sentenza inappellabile. Erano loro due a dettare la linea, a serrare i ranghi, a garantire l’unità di intenti di un popolo che aveva chiaramente in testa cosa non voleva ma le idee un po’ più confuse su ciò per cui valesse la pena lavorare. Oggi Grillo è tornato a fare il comico e Casaleggio è morto, e le due figure sono state rimpiazzate rispettivamente dal direttorio e dal figlio Davide. Il primo è un coacervo di differenti personalità (si va dalla flemma istituzionale e collaborativa di Di Maio all’intransigenza battagliera dura e pura di Di Battista) ma medesime ambizioni, su tutte quella di essere il numero uno del nuovo corso; il secondo è un ragazzo di cui ancora poco o nulla si sa, che si nasconde ai media quasi più del padre e a cui è stato conferito il ruolo di mente del Movimento pressoché esclusivamente per eredità filiale. Se è Davide, in ultima istanza, a decidere (come nel caso Pizzarotti), che ci sta a fare il direttorio? Se è vero che da quest’ultimo dovrà venir fuori il futuro leader del Movimento, perché allora appare come una nobile aristocrazia che però alla fine deve fare i conti con il volere del monarca illuminato? Insomma, chi comanda nel M5S?