Gli ha dedicato la vittoria di tappa

Chi ha scoperto il sorriso di Chaves e l'ha anche ospitato a Curno

Chi ha scoperto il sorriso di Chaves e l'ha anche ospitato a Curno
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Il giorno che ha toccato il cielo con un dito arrivando da solo in cima alle Dolomiti, il ragazzino di Tenjo, Bogotà, ha alzato il braccio, lo stesso braccio che due anni prima un gruppo di medici aveva guardato e analizzato, studiato e sezionato, prima di dirgli che in quelle condizioni non avrebbe più potuto fare il corridore. È nata così la stella di Estaban Chaves, con una vittoria di tappa, il secondo posto al Giro d'Italia e uno schiaffo al passato. «Io me lo ricordo anche nel 2013, quando ci fu l'incidente al Trofeo Lauigueglia. Cadde male, in pianura. Un periodo molto brutto per lui. Ma fortunatamente adesso è alle spalle». Chi meglio di Claudio Corti può raccontare il giovane colombiano? L'ex direttore sportivo del Team Colombia è l'uomo che lo ha scoperto, lo ha portato in Italia, lo ha ospitato nella sua casa di Curno. All'arrivo sulle Dolomiti, Chaves è a lui che ha dedicato la vittoria di tappa: «Tra noi c'è un rapporto di stima e di affetto, ci sentiamo, è capitato di confrontarci. Ma poi Esteban è uno che sa bene cosa vuole». La mamma lo ha aspettato per dieci mesi perché Esteban non nasceva più. Invece Adyde, la mamma della sua ragazza Natalie, che è molto cattolica, è andata fino al santuario della Madonna della Salute per prendergli un braccialetto con il crocefisso, lo ha bagnato nell'acqua santa e adesso Esteban lo tiene al polso come portafortuna. «È un ragazzo molto intelligente - racconta Corti -, una persona curiosa, rispettosa degli altri, e poi Chaves ha le idee chiare. È gioioso, con un carattere aperto. Lo definirei un ragazzo sereno».

 

 

Non nel 2013, però. Cos'era successo?

«Era andato a sbattere contro un paletto. Frattura alla clavicola, problemi vari. Un casino. C'era una lesione a un nervo. Avevamo fatto un po' di controlli, a Genova, a Brescia, alla fine decise di fare un intervento in Colombia. Ma il peggio è stato quando è tornato in Italia».

Perché?

«Non riusciva ad alzare il braccio. Io gli sono stato vicino, lo rincuoravo. Sono passati quindici mesi. Verso agosto ha firmato per l'Orica. Piano piano le cose sono andate apposto, per fortuna, e vederlo vincere una tappa del Giro d'Italia, vederlo in maglia rosa, mi ha fatto davvero tanto piacere».

Chaves come lo ha scoperto?

«Era il 2011. Stavo chiudendo il contratto con il governo Colombiano, lui era uno dei più bravini. Aveva vinto il Tour de l'Avenir. Prometteva bene, questo lo posso dire. All'inizio però non è stato mica facile».

Un modo diverso di correre?

«Farlo qui non è come in Colombia. Ci vuole più potenza, ci vogliono cambi di velocità. Un giorno andiamo a fare una salita in Trentino, lui arriva prima di tutti gli altri colombiani del gruppo. Me la ricordo quella volta, c'era la neve alta così ai lati delle strade. Ma dopo le prime corse Esteban va in difficoltà. Alla Tirreno-Adriatico, addirittura, si ritira. Devi stare tranquillo, gli dicevo, hai bisogno di un po' di tempo. Ad agosto vice il Camaiore».

Ci ha visto lungo...

«Non sono un mago. Dovevo dargli morale e lui doveva adattarsi. Quello è stato un anno bello. Doveva anche andare al Giro d'Italia ma poi ci fu quella caduta al Laigueglia e niente. Ci restò male, avevamo fatto la preparazione e il mito del Giro si è creato lì».

Beh, si è rifatto quest'anno. Lo poteva vincere il Giro?

«Gli eventi degli ultimi giorni hanno cambiato le cose drasticamente. Il Giro forse lo doveva vincere Kruijswijk, l'olandese. Ma credo che Esteban abbia corso bene e che abbia dato quello che aveva».

 

 

Chaves chi le ricorda?

«Mah, non lo so. I paragoni non servono mai a molto. Esteban è molto forte in salita, è attento, corre come si deve. Poi i grandi giri sono complicati da vincere. Ci sono grandi corridori che non ce l'hanno fatta. Zilioli, Poulidor, per dire…».

Lui l'ha definita un papà. Le ha fatto piacere?

«Io ho già tre figli. Quando ha letto il titolo sul giornale mia figlia, quella grande, mi ha mandato subito un messaggino: "Siamo cresciuti in famiglia" (e ride, ndr). Con Esteban ci sono buoni rapporti, ma non si parla di cose tecniche. Ha il suo staff. Però, a volte, come questo inverno, capita di sentirci. Quest'inverno mi ha chiamato per dirmi il programma, e se ne parla come due amici».

Lei lo ha ospitato a Curno, in casa sua.

«Ho portato qui sedici colombiani e da qualche parte dovevo sistemarli. Alcuni li ho ospitati nell'appartamento di quand'ero piccolo, quello dei miei genitori. Erano in tre. A lui piaceva stare lì. Al piano di sopra abita mio fratello, gli ha fatto conoscere le strade, Bergamo, gli ha fatto fare un po' di giri. Chaves è sempre felice».

Ce la racconta una curiosità su di lui?

«Una volta ci ha preparato da mangiare, un piatto tipico, la Bandeja Paisa. Carne, fagioli, quelle robe lì. Niente male».

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Claudio Corti.

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Claudio Corti.

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Claudio Corti con Esteban Chaves.

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Claudio Corti (a destra) con un giovanissimo Esteban Chaves.

Ma i colombiani sono tutti come lui, pieni di magia?

«No, non tutti. Funziona così dappertutto. C'è gente con un certo tipo carattere, e altra con un tipo diverso. Esteban è un bravo ragazzo. Ma qualche corridore colombiano con cui non mi sono preso l'ho avuto, devo dire».

Lei perché è così legato alla Colombia?

«Ce l'ho nel cuore. Sono diventato campione del mondo in Venezuela, e quindi sono molto attaccato al Sudamerica. Tornare in quei posti mi fa ripensare a quegli anni. C'è uno stile di vita diverso e una povertà palpabile rispetto a quella che c'è da noi. Ma quattro anni fa, con il lavoro per il governo, ho avuto modo di conoscere un altro aspetto della Colombia. Ci andavo cinque-sei volte all'anno. A Bogotà certi giorni chiudono le strade, e tutti vanno in bici, coi pattini: è bellissimo».

C'è ancora umanità nel ciclismo?

«Si vive tanto insieme, prima e dopo una gara. La sera dopo una batosta sei lì, dopo un'illusione sei lì, dopo un risultato, una gioia, un dolore. Sei lì. Si vivono queste cose, e si creano rapporti. Il nostro è sempre stato uno sport di questi tipo, fatto di rapporti. Chaves, per esempio, ha tanti amici. Perché è nel suo carattere. È una cosa bella».

 

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Vincerà il Tour de France?

«Eravamo in autogrill, ci eravamo fermati dopo una corsa. Quel giorno me lo ha chiesto, me lo ricordo bene...».

E lei?

«Non gli ho risposto. Ma il perché non lo voglio dire nemmeno a voi».

Chaves ha una soglia del dolore molto alta?

«Prima che si staccasse da Nibali, nella penultima tappa del Giro, lui era terzo. Lo vedevo dalla tv, aveva le labbra viola. Non si vedeva bene l'affanno. Ma cosa ne sappiamo noi del dolore di Chaves? Ogni corridore lotta contro il suo».

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