Photocredit BergamoPost/Mario Rota.
«Facciamo un gioco», dicevo da bambino con i miei amichetti del quartiere dove abitavo. «Giochiamo ad immaginare». Così, quello che vi chiedo ora è di tornare a giocare con me per un momento. Chiudete gli occhi e immaginate che la nostra bella Bergamo sia una città di frontiera, con un confine che passa poco più a sud all’altezza di Sabbio e Zanica.
E immaginate che nello Stato vicino scoppi una sanguinosa guerra civile e che, tra le maglie di questo conflitto, si inseriscano fazioni di minoranze etniche e un esercito di fondamentalisti religiosi, tutti schierati a darsi battaglia subito oltre il confine, a poche decine di chilometri da Città Alta.
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Immaginate che, in seguito ai bombardamenti, alle rappresaglie, ad alcuni eccidi di massa, buona parte della popolazione che si è trovata, suo malgrado, in mezzo al conflitto, con le abitazioni distrutte e le attività economiche collassate – diciamo gli abitanti della fascia compresa tra Filago e Castelli Calepio a nord e Lodi, Crema e Manerbio a Sud – si riversi in pochi mesi in città. Circa 130mila uomini, donne bambini. Massaie, studenti, operai, professori, commercianti, artigiani, imprenditori, agricoltori. Stanchi, spaventati, traumatizzati, feriti. Ci sono tutti: quelli che fino a poche settimane prima ci portavano le verdure o dai quali ci recavamo per lavorare in una trafileria. Ma anche soldati ribelli che vengono a riposarsi e ad incontrare le famiglie prima di ritornare in prima linea.

L’effetto delle schegge di un missile sul muro di una casa.
Immaginate che tutte le notti ci siano così tanti bombardamenti, tra Vaprio, Treviglio e Romano, da offrire spettacoli di luci gratuiti, ma da tenere svegli tutti, a Bergamo, e che ogni tanto qualche missile katjusha arrivi a colpire delle abitazioni tra Longuelo e Curno. Per sbaglio, certo, ma pur sempre una questione scocciante.
Immaginate infine, ma ve lo prometto, è l’ultimo sforzo che vi chiedo, che Crema sia molto più grande di come è in realtà e che stia subendo un terribile assedio da mesi, con continui bombardamenti, combattimenti casa per casa, che la popolazione se ne stia bloccata in città e i convogli umanitari non riescano a raggiungerla, anzi vengano bombardati nel tentativo.
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Ora riaprite gli occhi. Se riuscite ad immaginare tutto questo avete visto, state guardando Kilis, moderna città al sud ovest della Turchia sul confine siriano, a circa 30 chilometri in linea d’aria da Aleppo. Da qui un secolo fa passarono gli Armeni in fuga dal genocidio del loro popolo, messo in atto dall’Impero Ottomano. Negli ultimi anni il numero dei profughi ha superato quello degli abitanti: circa 130mila contro i 90mila residenti. Kilis, nei mesi scorsi, ė stata il porto sicuro dove approdare per chi era in fuga dai combattimenti. Ora il varco di confine è stato chiuso dal governo di Ankara ed é stato eretto un muro di 900 chilometri, per impedire il passaggio sia ai profughi sia agli aspiranti combattenti dell’Isis. «Fino a qualche mese fa gli unici occidentali da queste parti erano alcuni volontari e collaboranti e persone che andavano a combattere per l’Isis, tedeschi, francesi e tanti italiani», ci dice Ali, la nostra guida turca.

La Siria è lì a due passi, basta salire su un’altura per scorgere le bandiere dell’esercito ribelle, con tre stelle rosse in campo bianco, e la sera, dalle stesse colline, si può assistere allo spettacolo del fuoco di batterie di razzi lanciati verso sud, contro il Daesh, o verso sud-ovest, contro l’esercito governativo di Hassad. «Fino a novanta giorni fa la notte non si poteva dormire per i continui bombardamenti, poi l’esercito (turco, ndr) ha sconfinato per trenta chilometri verso Aleppo e l’Isis è fuggita. Vedi quelle luci? Ecco, lì c’è Oylum, l’ultimo paese turco. E vedi là il buio? Ecco, là ci sta la Siria». Ecco cos’è la Siria oggi: un immenso buco nero.