L'Associazione di Scanzorosciate

«Combatto contro il Moyamoya che ha ucciso mia sorella Monica»

«Combatto contro il Moyamoya che ha ucciso mia sorella Monica»
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Nata a Villa di Serio, Giusi risiede a Scanzorosciate. Sposata con Luca, operaio, è casalinga e madre di una ragazza di 15 anni. Ha lavorato in fabbrica alla Incotex di Villa di Serio, prima dell’improvvisa chiusura. La fabbrica è stata in seguito occupata per cinque mesi. Da ragazza era iscritta e militante della Fgci (giovani comunisti). Nel 1983 si è sposata per la prima volta ma il matrimonio è durato solo sei anni. Nel 1989 ha aperto un bar a Scanzorosciate che ha portato avanti per nove anni. Nel 2001 si è sposata con l’attuale marito, Luca, e nel 2003 è nata Alice. In seguito ha lavorato come cameriera in un ristorante. Dopo la malattia della sorella minore, Monica, ha fondato con il fratello Ivan l’Associazione Amici del Moyamoya, di cui dal 2011 è presidente. L’associazione ha sede a Scanzo e raccoglie un centinaio di volontari. Il direttivo è composto da sette persone. L’impegno principale è fornire aiuto e assistenza alle famiglie che si trovano a dover fare i conti con una malattia rara e gravissima chiamata appunto Moyamoya. L’associazione offre il suo sostegno gratuito anche ad altre iniziative di solidarietà. [Nella foto in copertina, Giusi Rossi davanti al ritratto della sorella Monica realizzato dal pittore Ivano Berlendis, nella sede dell’Associazione Moyamoya a Scanzorosciate]

 

Giusi, partiamo dal giorno in cui sua sorella, incinta al quarto mese, si sentì male improvvisamente.
«Era il 27 agosto di dieci anni fa, una domenica mattina. Mi chiamò mio cognato Arturo dicendo che Monica manifestava dei sintomi strani. Pensai a qualcosa legato alla gravidanza o a una congestione, perché la sera prima avevamo mangiato in pizzeria e lei aveva bevuto dell’acqua fredda».

E invece?
«Arrivati in ospedale ci dissero che aveva un’emorragia cerebrale e che probabilmente non sarebbe sopravvissuta. Passarono ore interminabili in pronto soccorso. I medici parlavano, ma io, mio cognato e mio fratello Ivan eravamo frastornati, non riuscivamo a capire quello che stavano dicendo, ci sembrava impossibile. Monica venne portata in sala operatoria, seguirono altre ore drammatiche. Quando i chirurghi uscirono ci informarono che erano riusciti a fermare l’emorragia, ma che non erano in grado di sapere quali conseguenze quell’episodio avrebbe avuto su mia sorella».

 

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Uno choc tremendo.
«Seguì un mese in terapia intensiva durante il quale non lasciammo Monica da sola nemmeno per un minuto. Intanto il feto continuava a crescere come se niente fosse. Passarono alcune settimane e Monica pian piano si risvegliò, ma la parte sinistra del suo corpo rimase paralizzata. Il 6 dicembre - sono stati mesi durissimi, mi creda - decidemmo con i medici di far nascere Jacopo, così si sarebbe potuta curare anche la mamma. Prima del parto, Monica e mio cognato chiesero a me a mio marito di aiutarli a prendersi cura del bimbo».

Jacopo nacque sano?
«Fu uno spettacolo. Un bambino stupendo, solare e allegro come la sua mamma. Io e mio marito lo abbiamo portato a casa e nella sua drammaticità è stata un’esperienza meravigliosa: da una parte c’era la mamma in ospedale che stava lottando per sopravvivere e dall’altra c’era lui che ha portato nelle nostre case una gioia incredibile. Dopodiché sono iniziati gli accertamenti medici per scoprire che cosa era successo a Monica».

Che cosa è stato scoperto?
«Che era affetta da una rarissima patologia che si chiama Moyamoya. Scherzavamo sul nome e con mio cognato ci siamo detti: “Meno male che non è un tumore”. In realtà è anche peggio: si tratta di una malattia genetica che, a detta dei medici, è come avere una bomba a orologeria dentro la testa. È asintomatica, degenerativa e incurabile».

 

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Cosa significa Moyamoya?
«Questa patologia è stata scoperta da due medici giapponesi. Moyamoya nella loro lingua significa “nuvoletta di fumo”. La chiusura di alcune arterie del cervello fa sì che altre arterie creino una via alternativa che è, appunto, simile a una nuvoletta di fumo».

In quelle condizioni sua sorella non ha pensato che sarebbe stato meglio interrompere la gravidanza?
«No, mai. Il feto ha continuato a svilupparsi senza problemi, si è aggrappato alla vita come se niente fosse accaduto. Ma questo è Jacopo: se lo vede adesso è un bambino incredibilmente allegro, in paese lo conoscono tutti perché passa nei negozi e saluta: “Ciao”. Si vede che all’interno della pancia della mamma è stato benissimo».

Quanto è rimasta in ospedale sua sorella?
«A fine dicembre l’hanno trasferita alla Casa degli Angeli di Mozzo per la riabilitazione. Mio cognato, che è un uomo meraviglioso, è andato per un periodo ad abitare con lei e il bambino nell’appartamentino che c’è all’ultimo piano del centro. In seguito, per stare accanto a Monica e al bambino si è avvalso della legge 142 che consente di assentarsi dal lavoro per un massimo di due anni quando c’è da assistere un familiare malato».

Vi siete aiutati molto tra fratelli e cognati.
«La nostra è una storia complicata. Io, Monica e Ivan non siamo cresciuti in una famiglia facile, nostra madre aveva subito maltrattamenti da uno zio e dal papà. Ma una cosa i nostri genitori ci hanno insegnato: quella di volerci bene tra fratelli. Ognuno di noi ha la sua famiglia, ma siamo sempre rimasti legatissimi».

Quando è tornata la normalità?
«Jacopo ha vissuto a casa mia fino all’età di due anni. Poi è andato ad abitare insieme a mamma e papà, ma è diventato grande vivendo praticamente in due case».

 

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Poi avete fondato l’associazione per i malati di Moyamoya.
«Sì, l’idea è venuta a mio fratello nel 2011. Voleva aiutare altre famiglie che si fossero trovate nella nostra condizione. E a spingerlo c’era un amico, Paolo Gritti, che fin dal primo giorno ha creduto in questa iniziativa. Io ho resistito per un po’, poi mi sono detta: “Vabbé, non saranno mica tanti ad avere questo problema”. Così abbiamo fondato l’associa zione Amici del Moyamoya onlus. Ma appena aperto il sito c’è stata un’esplosione di richieste da tutta Italia».

Che cosa potete offrire a chi vi chiede aiuto?
«Per ora un punto di appoggio e un alloggio alle famiglie che vengono a curarsi al Papa Giovanni. Diamo loro anche un contributo di 200 euro. Per muovere i primi passi abbiamo collaborato con la Paolo Belli e la Home onlus di Verdello. Ma la richieste di aiuto sono state talmente alte che, grazie alle donazioni, abbiamo deciso di acquistare (con un mutuo) un appartamento vicino all’ospedale. Tra poco inizierà la ristrutturazione. Da dicembre dello scorso anno abbiamo anche una piccola sede a Scanzo. I progetti sono tanti: vorremmo organizzare un congresso per far conoscere ai medici l’esistenza di questa patologia, poco nota anche dagli addetti ai lavori. Il Moyamoya non è neppure riconosciuto dal sistema sanitario nazionale e quindi i familiari non possono usufruire della legge 104. Per sbloccare questa situazione ci stanno aiutando gli onorevoli Sanga e Carnevali, che si sono presi a cuore la questione. Pensi che tra le persone che ci hanno contattato c’è un papà con un bambino di dieci anni che avrà bisogno di assistenza tutta la vita. Una volta esauriti i due anni consentiti dalla legge, come farà? Con il consigliere regionale Barboni stiamo pure cercando di creare un’unità semplice per la cura del Moyamoya al Papa Giovanni».

 

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Ci faccia capire: all’ospedale di Bergamo si cura il Moyamoya?
«Abbiamo un’equipe medica di prim’ordine capinata dal dottor Andrea Lanterna, che oltre a essere un bravissimo neurochirgo è una persona di grande umanità. Le racconto un episodio. Un giorno in banca scopro che sul conto dell’associazione c’è un bonifico e non riesco a capire da dove arrivi. Indago e scopro che viene da un paese delle Marche. Non conosciamo nessuno di quel paese e allora chiamo il dottore: “L’ha contattata qualcuno da questa località?”, “Sì, una signora”, mi risponde. Gli chiedo il recapito telefonico perché la volevo ringraziare di persona e scopro che Lanterna era andato a visitare suo marito, malato di Moyamoya, che non si poteva muovere. Tutto a spese sue. E quando la signora gli ha chiesto: “Mi permetta almeno di rimborsarle il viaggio”, lui le ha risposto: “Se proprio vuole, faccia un’offerta all’associazione».

A che punto siamo con la cura?
«A differenza di dieci anni fa oggi c’è la possibilità di fare un intervento di bypass della zona in cui non arriva sangue. Non si guarisce, ma in questo modo è possibile evitare le emorragie».

Il vostro dramma comunque non era finito perché il 10 marzo dello scorso anno sua sorella è morta.
«Due giorni prima - era il compleanno di suo marito - Monica aveva avuto un’altra emorragia cerebrale. Il neurochirurgo, che l’aveva accompagnata passo dopo passo nel suo calvario, ci ha detto: “Lasciatela andare, a questo punto anche se la operassimo non si risveglierebbe più”. Due giorni dopo è morta, era il nono anniversario di matrimonio. Da allora abbiamo deciso di continuare con ancora maggior determinazione la battaglia dell’associazione».

 

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Lei ha una forza non comune.
«Io amo la vita, la amo al punto che qualsiasi cosa mi sia successa - le garantisco che non è stata facile -, mi sono sempre rialzata, senza piangermi addosso. Vedere mia madre massacrata di botte e irrimediabilmente segnata dai maltrattamenti subiti non è stata una passeggiata, perdere una sorella che amavo più di me stessa, neppure, ma io credo che niente capita a caso e che certe prove vengono date a chi è in grado di sopportarle. Perché la tragedia Monica? Forse perché avevamo l’energia di creare l’associazione nella quale oggi operano cento splendidi volontari».

Lei ha fede?
«Non posso rispondere a questa domanda con un no o con un sì. Ho avuto fede come hanno fede tutti i bambini. Ma da grande, in seguito alle vicissitudini che le ho accennato, la fede non ha più fatto parte della mia vita. È stato mio marito a farmi riavvicinare e con lui mi sono sposata in chiesa, mentre per il precedente matrimonio avevo scelto il Comune. Poi però quando si è ammalata Monica mi sono detta di nuovo: “Non può essere...”. Per questo non riesco a rispondere con un sì o con un no».

Nel frattempo però scrive al Papa.
«Sì, ma perché credo in lui, nella sua persona. Mi piace molto e credo in quello che dice».

Ma cosa gli scrive, ci può leggere un brano della lettera che gli ha spedito?
«Il finale: “Come avrai letto ti ho dato del Tu. Mi perdonerai ma sono una donna che per le varie vicissitudini della vita si è allontanata dalla fede, ma ho sempre creduto fortemente nell’amicizia e nelle relazioni umane e Tu, con il tuo messaggio quotidiano nel quale dici che sostenere i più fragili significa costruire una comunità e un mondo migliore, mi hai dato il coraggio di scriverTi. Noi amici del Moyamoya avremmo tanto il piacere che Tu intervenissi alla nostra cena annuale che si terrà l’8 aprile 2017, dove potrai assistere alle testimonianze dei nostri pazienti e dei medici. Mi rendo perfettamente conto che gli impegni ai quali sei sottoposto sono davvero tanti, ma io spero che Tu riesca a trovare un buchino anche per noi! Comunque la nostra associazione con tutti i suoi volontari verrà alla tua udienza il 26 aprile 2017 per poterti ascoltare ed incontrare... Ciao, Giusi”».

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