I volti del dolore

Una notte in strada con le prostitute

Una notte qualsiasi d'inverno, un viaggio sulle strade e negli angoli bui della Bergamasca col camper di don Gianpaolo Carrara, che quasi tutte le sere porta un po’ di tè, un sorriso e una speranza alle ragazze

Una notte in strada con le prostitute
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di Andrea Rossetti

Blessy ha un sorriso che illumina la stanza. Al collo porta una collanina con una croce in legno. Ogni tanto la sfiora mentre parla, come se cercasse in quel contatto le parole più giuste. Perché certe storie sono così difficili che le parole non si trovano. Blessy ha 20 anni e viene dalla Nigeria. Da qualche settimana vive nella casa famiglia di don Gianpaolo Carrara, fondatore della Fondazione Gedama Onlus di Ponte San Pietro. È arrivata in Italia soltanto cinque mesi fa con il sogno di poter continuare a studiare. È finita a fare la prostituta sulle strade della Bassa. In un inglese stiracchiato spiega il periodo difficile passato in Libia, senza acqua e senza cibo. Poi il viaggio su un barcone, l'arrivo a Lampedusa, l'incontro con la donna che avrebbe dovuto regalarle una nuova vita e che invece l'ha trasformata in un prodotto in vendita nel grande discount del sesso che sono le nostre strade. Don Gianpaolo ogni tanto le dà una carezza, le dice «brava». E lei sorride.

Don Gianpaolo e l'associazione Gedama. Blessy non è diversa dalle altre ragazze che questo prete di Serina aiuta con la sua Fondazione. Quasi ogni notte sale sul suo camper e percorre strade che ormai conosce a memoria. Filago, Madone, Brembate, Osio Sotto, Zingonia, Urgnano. Chilometri e chilometri con la speranza di poter aiutare giovani donne che non sanno che una vita migliore esiste se solo trovassero il coraggio di alzare gli occhi. Offre loro una tazza di caffè o tè caldo, qualche biscotto, tante caramelle. Parla «a gesti, con i disegni o in un italiano basico, perché purtroppo l'inglese non lo so bene», e cerca di convincerle ad andare con lui, a denunciare le “Madame” (protettrici che le costringono a suon di botte e minacce a stare per strada), a costruirsi una nuova vita. Don Gianpaolo lo fa dal 1998, dal 2006 attraverso la Gedama, nata grazie all'impegno suo e della sua famiglia con cui ha comprato la casa a Ponte San Pietro dove accoglie le ragazze (qui sotto nelle foto). Dà loro un letto, cibo, affetto. Le affianca durante la denuncia alle forze dell'ordine, nel lungo iter burocratico per ottenere dei documenti. E poi organizza, grazie al supporto dei volontari, scuole di lingua e laboratori di lavoro. Non è facile, ma il sorriso di Blessy, che è quello di tante altre giovani donne, ripaga ogni sforzo.

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Le ragazze nigeriane. Alle 21.30 circa saliamo sul camper, io e don Gianpaolo. «Di solito è meglio andare in tre – spiega –: uno guida, un altro parla alle ragazze e il terzo controlla la situazione. Può essere pericoloso». Perché la strada è una terra di nessuno, un limbo che, calato il sole, si riempie di emarginati, sfruttati e sfruttatori. Negli ultimi anni la Gedama si occupa soprattutto di ragazze nigeriane: «Non è una scelta “etnica” – precisa don Gianpaolo –. Semplicemente sono vittime di una mafia che si sta espandendo. Promettono loro un lavoro, di farle studiare. Poi, una volta qui, le buttano in strada. Per questo quando vedono qualcuno disposto ad aiutarle lo ascoltano più volentieri. Per le ragazze dell'Est, invece, è diverso. Sanno cosa vengono a fare, si prostituiscono un po' di mesi e poi tornano nei loro Paesi con i soldi raccolti. Molti soldi. Poi tornano in Italia e riprendono a prostituirsi. È un circolo vizioso che non ammette intromissioni».

Il primo incontro: Adriana e Sabrina. Per strada, don Gianpaolo diventa Father John: è il nome con cui lo conoscono le ragazze. Perché tutte sanno chi è, che di lui si possono fidare. I racconti scorrono veloci come l'asfalto sotto le ruote del camper. Fa freddo, la nebbia è fitta. A un certo punto, appena entrati in Brembate, accostiamo. In un angolo ci sono Adriana e Sabrina, due ragazze dell'Est. La prima ha 31 anni, parla un ottimo italiano e sorride. «Ciao John. Freddo stasera», dice. Già, fa molto freddo, soprattutto se indossi una minigonna inguinale. Sabrina resta sullo sfondo, silenziosa e giovanissima. Non ha più di 20 anni. Si guardano intorno mentre don Gianpaolo chiede loro come stanno, perché stanno lì nonostante questo tempo da lupi. «Soldi» è la risposta, tanto banale quanto disarmante. Pochi minuti, un paio di caramelle regalate e si riparte. «Bisogna essere in grado di mantenere gli equilibri – dice don Gianpaolo –. Quando vedi che si guardano attorno con insistenza, significa che è il momento di andare. Per loro siamo un disturbo, clienti e soldi persi».

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Secondo incontro: Silvia. Pochi chilometri lungo una strada buia e don Gianpaolo rallenta di nuovo. Ha visto Silvia, 24 anni appena compiuti, nigeriana. Quando il camper si ferma, lei corre verso di noi e don Gianpaolo mi dice di scendere. Trema dal freddo, chiede se abbiamo qualcosa di caldo, ma purtroppo l'unica cosa che possiamo offrirle sono dei biscotti. Che lei prende e nasconde nel giubbotto. Sembra impaurita, si guarda continuamente intorno. Don Gianpaolo se ne accorge e le chiede se è tutto ok, se ha bisogno di aiuto. Le dice di venire via con noi. Lei scuote la testa, ringrazia, dice che va tutto bene. Parla di Eki, la sua amica che è appena diventata mamma. Anche lei è una prostituta, anche lei è conosciuta da don Gianpaolo. Ora Eki è sposata, dice Silvia con un filo di invidia nella voce, a lei invece tocca lavorare. Si gira e se ne va, senza dire una parola in più. Ripartiamo.

Terzo incontro: Ester. Continuiamo a percorrere un rettilineo che non saprei riconoscere. I lampioni sono pochi e la nebbia nasconde tutto. Poco prima di una rotonda, però, vediamo Ester, che pare quasi ci stia aspettando. «Father John!» grida correndoci incontro. È anche lei nigeriana, ma più grande di Silvia. Parla un italiano decente, ma preferisce l'inglese. Don Gianpaolo la chiama “Miss Facebook” perché sui social è attivissima. «Tu Facebook?», mi chiede. Annuisco e, allungando lo smartphone, le chiedo se mi fa vedere la sua pagina. Mi mostra le foto di una ragazza sorridente, bella. Una ragazza lontanissima, nel sorriso e negli occhi, da quella che ho davanti in quel momento. Mi chiede l'amicizia, «poi tu porti me a ristorante, perché adesso amici» mi dice. Sorrido e le rispondo che le offro quante cene vuole se si fa aiutare da Father John. Don Gianpaolo è due anni che cerca di convincerla, ma lei ha paura.

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La sua “Madame” la picchia e le dice che se prova a scappare è pronta a fare un rito Voodoo contro di lei e la sua famiglia. «Per noi è assurdo, ma per loro il Voodoo è qualcosa di potente», mi spiega il prete. Mentre parliamo, un ragazzo di colore in bicicletta passa e rallenta. È un cliente, ma Ester, lo manda via. «No black boy», dice. Preferisce gli italiani, perché sono «bravi, dolci e pagano dopo scopato». Prima di andare via, ci abbraccia e ci chiede se torniamo. Don Gianpaolo la rincuora e le dice che si rivedranno presto. Io le ricordo la promessa. Sorride e torna nel suo angolo buio di mondo. Mentre ripartiamo diretti verso Osio Sotto, chiedo a don Gianpaolo altre informazioni sul Voodoo. «Fa parte della loro cultura. Il nostro lavoro non può prescindere dalla conoscenza delle loro tradizioni. Quando accettano di venire con noi inizia una strada che dobbiamo percorrere insieme. La nostra cultura è lontana dalla loro, devono impararla e rispettarla se vogliono restare qua. Ecco, noi le accompagniamo in questo cammino».

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Quarto incontro: Pamela e Gloria. Arrivati a un distributore, don Gianpaolo si ferma. Davanti a una pompa di benzina ci sono altre due ragazze di colore: «Una è Pamela – mi dice –, l'altra è nuova». Mentre scendiamo dal camper, Pamela ci saluta con garbo ma un po' di freddezza. Sta aspettando un cliente, dice. Don Gianpaolo cerca di parlarci, ma poco dopo arriva una macchina e lei corre via. Rimaniamo così insieme alla seconda ragazza. La giacca fucsia, piumata e appariscente, stride con il viso timido e impaurito. Si chiama Gloria, ha 21 anni e parla un inglese perfetto. È arrivata in Italia soltanto due mesi fa, sognava di poter continuare a studiare, invece deve mandare i soldi a sua mamma, suo papà, le tre sorelle e i due fratelli, tutti più piccoli di lei. Mentre lo dice si commuove, ma sorride allo stesso tempo. Don Gianpaolo sale sul camper e, oltre a darle qualcosa da mangiare, le regala una Bibbia in inglese. Gloria la prende in mano e inizia a sfogliarla. «Grazie, grazie, grazie...» continua a ripetere. Tra le pagine, un biglietto da visita. È quello della Fondazione, con il numero di telefono scritto in grande. Le spieghiamo che se vuole essere aiutata non deve fare altro che chiamare. In inglese, ci risponde: «Lo so che non dovrei essere qui. Lo sanno tutti che è sbagliato. Ma non ho alternative». Le hai invece, provo a insistere. L'alternativa è lui, dico indicando don Gianpaolo. Gloria mi guarda e sorride come se fossi un bambino ingenuo: «Mi servono soldi. Ma sto bene, grazie. Se ho bisogno vi chiamo». Don Gianpaolo, rimasto più defilato mentre io e lei parlavamo, tira fuori il cellulare e decide di mostrarle una foto. È l'immagine della lapide di Doris, giovane nigeriana morta sulla strada. Era una prostituta. Gloria chiude gli occhi, ricaccia indietro le lacrime. Mi tende una mano gelida. Chiamalo, le dico. «Tornerete?». «Presto – risponde don Gianpaolo –. Tu pensaci, fatti aiutare».

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Quinto incontro: Jennifer, Sofia, Joyce e Gina. Ho meno voglia di parlare dopo questo incontro, dopo aver visto anche io la foto della lapide di Doris. Don Gianpaolo capisce e rispetta il silenzio. Ma solo per pochi minuti: «Abbiamo capito che il linguaggio delle immagini, a volte, può essere molto più incisivo delle parole. Raccontare loro la storia di altre ragazze può aiutare a sbloccarle». Poi si interrompe e mi indica il punto vendita Carrefour aperto 24 ore su 24 vicino a cui stiamo passando. Scuote la testa sconsolato: «Questi posti sono diventati dei nuovi punti di ritrovo per prostitute. Le ragazze si mettono qua vicino e poi si fanno prendere qualcosa da mangiare o da bere. Incentivano la prostituzione, anche se non lo sanno». E infatti, poche centinaia di metri più avanti, al confine con Zingonia, troviamo Jennifer, Sofia, Joyce e Gina.

L'accoglienza per Father John è, anche in questo caso, festosa. A differenza delle ragazze incontrate in precedenza, forse perché sono in gruppo, accettano di salire sul camper e scaldarsi un po'. Tra loro ridono, parlano un po' in nigeriano, un po' in inglese, un po' in italiano. Si riempiono le tasche di caramelle e biscotti. Spiegano che fa molto freddo e Joyce mi chiede se posso scaldarle le mani. Gliele stringo tra le mie mentre tento di capire i loro discorsi. Intuisco che stanno parlando dei loro nuovi tagli di capelli. Hanno tutte meno di 30 anni e scherzano con don Gianpaolo chiamandolo nonno. Io invece sono il loro nuovo fratello, mi dicono. In questo momento, sedute al tavolino di un camper parcheggiato a bordo strada alle 24 di una notte umida e nebbiosa, stanno probabilmente vivendo il momento più sereno della loro giornata. Joyce, con le mani finalmente calde, mi ringrazia e mi chiede se posso scaldarle anche a Jennifer, che timidamente mi allunga le sue. Accetto con un sorriso mentre Sofia, che è quella che parla meglio italiano, chiacchiera con don Gianpaolo. Il quale, a un certo punto, decide di mostrare loro la foto della lapide di Doris e un filmato in cui si racconta l'arresto di alcuni esponenti della mafia nigeriana avvenuto poco tempo fa in Campania. Le ragazze si zittiscono, osservano lo schermo dello smartphone. Don Gianpaolo spiega loro che devono trovare, insieme, la forza di ribellarsi. Fanno sì con la testa, ma poi decidono di andare via. Ci salutano schioccando rumorosi baci sulle nostre guance.

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Un percorso umano. Mentre facciamo manovra e riprendiamo il viaggio verso casa, chiedo a don Gianpaolo se capita spesso che le ragazze stringano amicizia per strada. «Non illuderti – mi risponde –. Ora le hai viste ridere e scherzare insieme, ma la priorità è la sopravvivenza. E se sopravvivere significa passare sopra le altre, non esitano a farlo. Per strada regna l'egoismo. Ho visto ragazze picchiarsi per un cliente, farsi del male per un tozzo di pane». Il percorso che la Fondazione Gedama fa insieme a queste ragazze non è solo burocratico e legale, ma soprattutto umano. Un ritorno a quei valori primari della società che la sofferenza e il dolore hanno cancellato. Per questo, mentre scendo dal camper e saluto don Gianpaolo, non posso fare a meno di provare un enorme rispetto per lui. Ma soprattutto per Father John, che mi ha insegnato a guardare anche negli angoli bui delle notti nebbiose e a trovare, lì, un barlume di umanità.

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