Pronto soccorso del Papa Giovanni «È impossibile lavorare così»
«Il problema erano soprattutto i turni in pronto soccorso. Negli ultimi anni il pronto soccorso è diventato una realtà via via più difficile, con sempre più persone che vi si rivolgono, spesso per piccole cose, mentre a volte si tratta di situazioni molto gravi. Il risultato è l’ingolfamento, le ore e ore di attesa che i pazienti denunciano. Ma stare dall’altra parte non è divertente».
Raffaella Molinaris è radiologa, in particolare al Papa Giovanni si occupava di senologia. Ha lasciato l’ospedale poco più di due anni fa, una decisione sofferta. Dice Raffaella: «Il problema del lavoro in senologia consisteva nelle liste di attesa che arrivavano a due anni, una situazione davvero imbarazzante. Allora per le pazienti oncologiche, che avevano avuto tumori al seno, avevamo creato una unità aggiuntiva che ci consentiva di compiere circa dieci esami in più alla settimana. Ma era comunque poca cosa. Questo problema delle liste di attesa infinite si crea anche perché talvolta vengono prescritti esami inutili, io penso che bisognerebbe lavorare nel senso dell’incontro fra medici prescrittori, i medici di base, ma anche gli specialisti, e i radiologi, per capirsi meglio sull’utilità dei diversi esami, dalla radiografia, all’ecografia, alla Tac, alla risonanza...».
Raffaella Molinaris dice che nel reparto ci si impegnava molto, e che per mantenere alta la qualità delle indagini non si poteva andare oltre. «Nel nostro servizio si lavorava sodo, ma in buona armonia e questo rendeva l’impegno accettabile, nonostante il cruccio delle liste di attesa. Ma l’impegno in pronto soccorso era sfibrante, frustrante. Non si riusciva a lavorare in maniera accettabile. Un problema sono gli accessi inappropriati, che dovrebbero riguardare altre strutture, non certo il pronto soccorso. Ma di fatto devi affrontare anche questa marea di piccole cose. Un solo radiologo deve fare fronte alle richieste che riguardano tutte le specialità, perché il radiologo deve occuparsi dei diversi strumenti a cui accennavo prima, dalle schermografie alle risonanze magnetiche.
In queste condizioni arrivi alla fine stremata e nemmeno sicura di avere potuto dare il meglio di te. E questa sensazione risulta davvero sgradevole, difficile da accettare. La maggior parte dei medici è così, ha un grande senso del dovere, dell’importanza del suo lavoro per il paziente. Le notti erano sfibranti, il turno andava dalle otto di sera alle otto della mattina. Capitavano notti intere in cui non potevi tirare il fiato. E in certi momenti le richieste piovevano da più parti. Magari avevi il paziente politraumatizzato da incidente stradale che richiedeva massima attenzione e al tempo stesso ti chiamavano dai reparti perché il radiologo di notte al pronto soccorso era di guardia anche per il resto dell’ospedale, comprese le terapie intensive. Allora dovevi lasciare il pronto soccorso e andare in reparto. Oppure dovevi dire al reparto di aspettare. Così anche la domenica. Una situazione difficile da sostenere, considerando che capitavano due-tre notti al mese, più una domenica e più i turni normali nei giorni feriali. È stato terribile quando, in qualche situazione, è successo che fossi impegnata per un caso grave al pronto soccorso mentre una terapia intensiva chiedeva il mio intervento; allora dovevo magari rispondere di aspettare per un’ora. Non ce l’ho fatta più, ho preferito dimettermi».