Sempre più neri a far l'elemosina Il sistema accoglienza sta saltando

Il modello è Riace, giù in Calabria. Il sindaco che spalanca le porte della città spopolata, botteghe che riaprono, laboratori artigianali. Il contributo dello Stato, trentacinque euro al giorno per rifugiato, che viene usato per dare accoglienza ai profughi e allo stesso tempo per rilanciare il paese. Fra i primi rifugiati ci sono anche dei curdi, arrivati verso il 2000: hanno riaperto stalle e baite e hanno ripreso l’allevamento di pecore e capre. Altri fuggitivi lavorano nei laboratori e nei negozi che sono rinati. Nuova vita, nuova ricchezza, nuova economia. Gli abitanti erano scesi a 1.600 nel 2001. Ora sono risaliti a 2.300.
I neri che elemosinano. Da noi non succede. Ma potrebbe, con un po’ di coraggio. Da noi invece i neri li trovi davanti ai bar, alle chiese, ai negozi. Habib lo trovi davanti al panificio Tresoldi. Sorride debolmente, ti guarda, non ti chiede niente. Ma tu lo sai che ha bisogno di aiuto. Mamadou viene dal Senegal e sta al parcheggio di via Mazzini; prima erano in due, lui e Salu, adesso sono in cinque per un fazzoletto di cinquanta metri di parcheggio. Tutti del Senegal. Quei pochi soldi che guadagnano non bastano più per dare una mano anche alla famiglia in Africa, ma loro convivono, non mandano via l’ultimo arrivato, il più debole. Didie viene dalla Costa d’Avorio e sta davanti alla chiesa di Santo Spirito. Sorride, aiuta il disabile in carrozzina a superare il gradino della chiesa. Nemmeno lui chiede niente, ma non ce n’è bisogno, il bisogno è evidente. L’elenco è lungo. C’è Assane davanti alla Coop, il nigeriano Henry alla pasticceria Camyll, Habib in fondo a via Pradello... Neri e disperati.
I numeri dei migranti. Fino al 2008 in Bergamo non c’era un nero che chiedesse l’elemosina. C’erano i “vu cumprà” e i lavavetri, al limite. Offrivano qualcosa in cambio di aiuto. Da allora, da quando la crisi si è accanita prima di tutto su di loro, da quando centinaia di neri sono stati licenziati dalle nostre industrie, hanno cominciato a scendere in strada, a tendere la mano. Ora sono dappertutto. E aumenteranno. Si calcola che in Bergamasca siano presenti circa duemila e cinquecento immigrati che hanno richiesto asilo. A questi bisogna aggiungere i clandestini, un numero imprecisato, ma che nella nostra provincia dovrebbe aggirarsi attorno alle diecimila persone. Il totale degli immigrati stranieri nella nostra provincia si colloca sui 150mila (compresi tutti, dagli albanesi ai rumeni a indiani, africani...).
Le richieste respinte e la clandestinità. I clandestini aumenteranno perché i profughi quando arrivano vengono ospitati in strutture apposite, per esempio quelle della Caritas di Bergamo. Lo Stato provvede pagando 35 euro per ogni profugo che riceve vitto, alloggio, un minimo di formazione e di insegnamento della lingua, un piccolo compenso giornaliero. Intanto le pratiche per la richiesta di asilo vanno avanti. E normalmente finiscono con un rifiuto. L’84,7 per cento delle richieste viene bocciato dalla commissione apposita. I profughi hanno la possibilità di ricorrere alla magistratura ordinaria, ma di norma finisce con un altro rifiuto. C’è un’ultima possibilità: la corte d’appello di Brescia. Ma dopo la risposta della magistratura di primo grado, il diritto all’ospitalità nelle strutture, con relativa diaria, viene meno. I profughi finiscono in mezzo alla strada.
L'ozio forzato e un metodo che non funziona. Dice don Davide Rota, in prima linea con il suo Patronato San Vincenzo: «Penso che questa procedura non vada bene. Giusto accogliere, ma poi bisognerebbe dare ai profughi la possibilità di guadagnarsi la vita con il loro sudore, con il lavoro, la buona volontà. C’è tanto da fare...». Lo scorso anno sono stati espulsi dal nostro territorio 608 stranieri, tanti richiedenti asilo poi diventati clandestini. Dal 21 marzo 2014, tre anni fa esatti, a oggi, solo la Caritas diocesana di Bergamo ha accolto 3.482 persone; oggi gli ospiti sono circa 1.400. Accolti, nutriti, vezzeggiati. E poi buttati in mezzo alla strada. O di ritorno all’inferno dei loro Paesi.
Dice Bruno Goisis, responsabile della comunità Ruah che accoglie molti immigrati: «In questi giorni sono circa sessanta le persone che dovrebbero lasciare Bergamo e l’Italia perché hanno ricevuto l’esito negativo alla loro richiesta di asilo. Molti di loro sono qua da tre anni. Molti non se ne vanno, in realtà. Tanti raggiungono il Sud per fare i braccianti o i mungitori. Qualcuno cerca di raggiungere il Centro Europa. E gli arrivi continuano per via degli sbarchi. Non è di certo una situazione facile, la tensione cresce, queste sono persone che hanno sfidato la morte pur di arrivare qua. Bisognerebbe pensare a un modello diverso di accoglienza». Un modello fondato sul lavoro. I richiedenti asilo potrebbero essere aiutati a darsi da fare, impegnarsi come accade nei lavori socialmente utili. Invece devono starsene nell’ozio coatto. E diseducativo. Eppure ci sarebbe tanto da fare, basta guardarsi intorno. Il bisogno riguarda le persone anziane, ma anche i bambini. Le strade piene di buche, i marciapiedi messi peggio. Il verde pubblico. La sorveglianza dei percorsi da casa a scuola. E se allarghiamo lo sguardo incontriamo il modello Riace. Perché non indirizzare queste energie, questo desiderio di vita nei nostri paesi che stanno morendo come ha fatto il sindaco Domenico “Mimmo” Lucano con la sua Riace?