L'Anna Bolena alla "bergamasca" raccoglie solo fischi alla Scala
Era il 1982. Sul prestigioso palcoscenico meneghino (e internazionale) del Teatro la Scala andò in scena Anna Bolena del maestro Gaetano Donizetti. E fu un fiasco incredibile. La stella Montserrat Caballé, debilitata da una malattia che l'aveva costretta pochi giorni prima a rinviare l'attesissima prima, fu costretta a scappare letteralmente dal palco mentre la platea gliene diceva di ogni. Uno smacco incredibile e che intaccò, seppur solo per un istante, il mito del soprano spagnolo. Da allora, il teatro milanese non aveva più dato spazio all'allestimento ideato da Luchino Visconti nel 1957 per Maria Callas. Quasi come a voler dimenticare quella indegna parentesi.
A inizio aprile, ben 35 anni dopo, Anna Bolena è tornata sul palco della Scala. E la storia s'è ripetuta: fischi e fiaschi. Eppure tanto era stato l'orgoglio bergamasco all'annuncio del ritorno di quest'opera del Donizetti nel tempio italiano (e non solo) della lirica. Sia perché, per l'appunto, si tratta di un'opera del maestro orobico, sia perché l'opera sarebbe stata eseguita secondo l’edizione critica curata da Paolo Fabbri, direttore scientifico della Fondazione Donizetti, ed edita da Ricordi per Edizione Nazionale donizettiana realizzata in collaborazione con l’istituzione bergamasca. Insomma, un progetto che vedeva Bergamo coinvolta in prima persona. E le aspettative erano ben altre.
Alberto Mattioli, su La Stampa, ha definito la prima di Anna Bolena alla Scala «lo spettacolo peggiore dell’evo Pereira (finora, almeno), che ha brutalmente interrotto la serie positiva di Falstaff, Traviata e Meistersinger». Del resto è stato lo stesso pubblico a decretarne il flop, fischiando lo spettacolo firmato da Marie-Louise Bischofberger con le scene di Eric Wonder e i costumi di Kaspar Glarner e applaudendo soltanto (peraltro senza grande convinzione) i protagonisti e il coro. Protagonisti che, tra l'altro, non sono stati gli attesi Bruno Campanella e Anna Netrebko, i quali hanno dato forfait e hanno lasciato l'improbo compito quasi totalmente sulle spalle del soprano russo Hibla Gerzmava. E del direttore Ion Marin, naturalmente.
Anche Fabio Vittorini, per Il Manifesto, non è stato morbido: «Marin, che pure con Donizetti si è cimentato altre volte, sembra essere precipitato dentro questa "tragedia lirica" per caso e dirige in maniera fiacca e slabbrata, senza staccare mai tempi drammaticamente efficaci, senza prestare mai l’orecchio alla tornitura di suoni che vadano oltre il zumpapà bandistico pur presente in abbondanza nella scrittura donizettiana: l’opera ne esce impoverita, sia nella musica che nelle sue pulsioni genuinamente tragiche. La Gerzmava, dal canto suo, risolve il ruolo decorosamente in ogni sua parte, sia quelle di forza che quelle liriche, dando prova di una buona tecnica e di una buona resistenza; peccato solo che il timbro della sua voce, sonoro e pieno nel registro centrale e in quello grave, salendo in acuto si sbianchi e diventi stridulo, facendo rimpiangere i pianissimi gentili e ombrosi della Caballé e di Katia Ricciarelli dei tempi d’oro: ne deve essere consapevole la cantante, che si mostra impacciata proprio nell’aria finale che quei suoni richiede di più». Decisamente meno "educato" nel giudizio Mattioli: «La protagonista, Hibla Gerzmava, è un dignitoso soprano lirico che, quanto a carisma, sta a una Bolena alla Scala come il sottoscritto a Brad Pitt. Ma se sul podio c’è Ion Marin che si limita a battere il tempo e scorcia la partitura di circa la metà, come se fossimo ancora alla scure di Gavazzeni (lui aveva la Callas, però), la parte musicale è persa in partenza».
Non è andata meglio ad altri interpreti. Se Sonia Galassi, nei panni di Jane Seymour, se la cavicchia, va decisamente peggio a Carlo Colombara, alias Enrico VIII, che «fa scempio del pur familiare ruolo» (Vittorini dixit) e a cui «si vorrebbe chiedere come mai non abbia rinunciato: gli acuti schiacciati, i suoni calanti, i fuori tempo, le stonature, il continuo e inopportuno ripiegare nel parlato hanno minato pezzi d’insieme e momenti cruciali dell’opera». Ma, come sottolineavamo, le critiche maggiori, soprattutto dal pubblico, sono arrivate per la regia. Il giudizio è condiviso anche dai già citati critici di La Stampa e Il Manifesto. Per Mattioli, infatti, è «assurdo aver importato dalla provincia francese (Bordeaux, per la precisione) uno spettacolo atroce con scene orrende, costumi raccapriccianti e una regia pretenziosa e insensata di Marie-Louise Bischofberger»; per Vittorini, invece, è «clamorosa, e fischiatissima dal pubblico, la vacuità di idee che si tenta di colmare con movimenti (le piroette che Enrico fa fare a tutte le donne che incrocia) e citazioni (gli uccelli di Hitchcock!?) senza senso». No, non ci siamo. Ma ciò che fa più male, come scrive sempre La Stampa, è vedere Donizetti, un mostro sacro della musica nostrana, trattato «da Serie C», per di più in un teatro dove si parla spesso di "italianità". E a noi bergamaschi fa anche più male.