Dalmine è una città di emigranti Più di ottocento vivono all’estero
Accantonare qualche delusione alle spalle, raccogliere l’essenziale in un trolley sufficientemente capiente e comprare un biglietto aereo solo andata, per una qualche destinazione ancora da definire con esattezza, purché sia lontana da tutto ciò che ci è noto. Impossibile definire il numero preciso di persone che hanno fantasticato su questo pensiero almeno una volta nella vita.
Più facile, invece, stabilire la quantità di coloro che lo hanno messo in pratica per davvero, almeno per quanto riguarda il territorio di Dalmine: i dati forniti dal Rapporto Italiani nel Mondo per il 2016 parlano infatti di ben 841 dalminesi che risultano essere iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero). Una fetta di popolazione significativa, se si considera che, con i suoi 841 emigranti dispersi per tutta la superficie mondiale, Dalmine si posizione al quinto posto nella classifica bergamasca, che vede al primo gradino Bergamo (con 6800 emigranti), seguita da Albino (1283), Treviglio (917) e Clusone (860).
Ermes Pietra a Londra
E a proposito di chi l’aria ha avuto il coraggio di cambiarla per davvero, abbiamo provato a indagare cosa avvenga nella mente di qualcuno che scelga una nuova ambientazione per far scorrere la propria vita ascoltando il dalminese Ermes Pietra, classe 1989, che racconta: «Sono partito nella primavera del 2011 per il Regno Unito. È capitato quasi per caso, trasferirmi all’estero non era mai stato un mio pallino, non avevo mai preso in considerazione questa possibilità. Finché un giorno non è capitato che la morosa mi lasciasse, che mi ritirassero la patente costringendomi ad abbandonare il mio impiego di corriere e così…». Così il pensiero di un viaggio indeterminato all’estero si fa sempre più concreto, e Londra diventa una cornice inedita e tutta da costruire, a cui Ermes dedica ben tre anni e mezzo della sua vita. «Ho preso quel volo con convinzione, ero intenzionato a scoprire cosa sarebbe accaduto rimanendo là, sicuro che avrei potuto spostarmi altrove se non mi fossi trovato bene. Londra mi sembrava la scelta più naturale, perché in quella città avevo già diversi amici, sapevo che mi avrebbero reso più facile trovare agganci e che con il loro aiuto la strada sarebbe stata in discesa».
Che siano stati gli amici, la fortuna o il semplice caso, tutto sembra aver remato a favore della sua permanenza in una delle capitali più gettonate di sempre: il primo curriculum che getta nel circolo del lavoro londinese viene accolto, ed Ermes trova un posto come pizzaiolo in un locale gestito da compatrioti napoletani. «La cosa bella di Londra è che si può partire da zero, e i tuoi datori sono disposti a farti crescere per aiutarti ad arrivare molto più in alto, anche in tempi relativamente ristretti».
E per quanto riguarda il problema della lingua, invece? «Ho parlato in bergamasco per il primo anno e mezzo. Non mi serviva un inglese perfetto, era sufficiente farmi capire nelle semplici conversazioni della vita quotidiana. Mi sono messo d’impegno quando ho trovato lavoro come barista per strada: guidavo un’Ape che era una specie di bar mobile, poi dall’Ape sono finito a guidare una bicicletta gigantesca, che aveva anche alcuni tavolini annessi. Servivo caffè in una via della città: Snowden Street. È stato bellissimo, lì ho davvero dovuto imparare a dialogare adattandomi ai tipi di cliente, e a fare i conti con la vera Londra». Finché non è sopraggiunta la nostalgia per quei posti di stampo orobico, conosciuti da tutta una vita: «Sono tornato perché mi mancava soprattutto la natura. Londra è una città meravigliosa ma non c’è nulla di simile ai nostri paesaggi, alle nostre montagne».
Dopo il ritorno ufficiale, Ermes ha sperimentato anche la Spagna, ma solo per il tempo di una stagione. E se ora gli capita di pensare alla possibilità di fare di nuovo le valigie: «Forse andrei in Australia. Una volta che si è partiti è difficile accantonare definitivamente il pensiero di poterlo fare di nuovo. Ma ricominciare da capo è stressante, soprattutto con il passare degli anni. Ti rendi conto che le priorità diventano altre». Però ammette che, se solo potesse tornare indietro, «mi lancerei molto prima nell’esperienza dell’estero, finito il liceo saprei cosa fare. Prima si parte e meglio è, ti cambia l’approccio alle cose. A 20 anni si è più elastici, più disposti a sopportare. I miei non hanno vissuto troppo bene la mia partenza: sono figlio unico, sapevo che gli sarebbe mancato il disordine a cui li avevo abituati. Ma ora posso dire con certezza che non sarei lo stesso senza quella esperienza sulle spalle. Qui a Dalmine, sapevo che avrei avuto le spalle coperte. Là invece dovevo arrangiarmi, tutto dipendeva soltanto da me, dalla mia capacità di farcela».