Chi ha vinto gli ultimi Leoni d'oro
Il “Piccione” dello svedese Roy Andersson ha vinto il Leone d’oro 2014. Leone d’argento alla regia di Andrei Konchalovsky; l’Italia si aggiudica le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni con gli attori di Hungry Hearts di Saverio Costanzo: Alba Rohrwacher e Adam Driver.
Il Leone d’Oro di Venezia, così come la Palma al Festival di Cannes o l’Orso a Berlino, rappresenta il riconoscimento più ambito di cui un regista può essere insignito all’annuale concorso italiano di lungometraggi cinematografici, tutt’ora in atto al Lido. Vi proponiamo una carrellata degli ultimi 10 Leoni d’Oro, per ricordare i registi che – con assoluti capolavori o opere controverse su cui la critica si divide – sono saliti alla ribalta mondiale. Un piccolo viaggio nel passato prossimo, dal 2004 al 2013.
Del cinema inglese non si sente troppo spesso parlare in Italia, ma un’attenzione maggiore a questa cinematografia nazionale sarebbe più che necessaria; lo testimonia il successo ottenuto al Lido da Il segreto di Vera Drake, film di Mike Leigh uscito ormai dieci anni fa. Nella Londra degli anni Cinquanta, raccontata dall’interno grazie a una sensibilità evidentemente personale, prende forma la toccante ma forte vicenda di Vera Drake, madre e cittadina all’apparenza devota. Il segreto che si cela dietro questa facciata post-vittoriana è che la protagonista pratica aborti clandestini nella completa illegalità, convinta di aiutare le giovani donne che si trovano in una situazione di bisogno. Il film è un inno dedicato agli sconfitti dalla vita e dalle circostanze, a coloro che a fronte di buone intenzioni finiscono per perdere tutto ciò che possiedono: così Vera, criminale nei fatti, verrà incarcerata a causa dei suoi comportamenti. Una interessante e ben riuscita pellicola che racconta con sensibilità ma senza mezzi termini il tema non sempre evidenziato dell’aborto: la cornice temporale ci parla anche del nostro presente e questo rendere Il segreto di Vera Drake un’opera anche profondamente attuale.
Anche l’anno successivo la Giuria decide di premiare un film che mette a tema una materia scottante: I segreti di Brokeback Mountain evidenzia infatti in maniera inedita e chiara una delle tracce sotterranee del cinema. La tensione omoerotica fra due cowboy contemporanei getta infatti un’ombra retrospettiva su molti film western, dimostrando che spesso l’amicizia virile su cui si fondavano questi titoli nascondeva una forma di affezione ben diversa. Ang Lee, regista taiwanese insignito di un buon numero di importanti riconoscimenti, realizza un film valido a livello registico, ma che spesso finisce con il contraddirsi da solo. Il modo di raccontare la vicenda sembra infatti intriso di un moralismo strisciante, che sarebbe stato bene evitare nel caso di un film che si è sempre presentato come rivoluzionario per la sua capacità di mostrare in modo nuovo il tema dell’omosessualità maschile. Questo e altri motivi hanno fatto spaccare in due la critica, che dibatte da lungo tempo sulla correttezza del riconoscimento attribuito al film: esiste infatti una nutrita schiera di titoli antecedenti al 2005, che racconta in maniera molto più coraggiosa il medesimo tema.
Come dimostra il caso di Ang Lee, orientale con uno stile però marcatamente hollywoodiano, Venezia è sempre stata la patria delle cinematografie non occidentali. Spesso i riconoscimenti più importanti sono infatti tributati a registi che hanno saputo raccontare con sapienza drammi che, per quanto lontani, sanno assumere valori universali. Still Life, film cinese diretto da Jia Zhang-ke, cerca di fare proprio questo. Registicamente siamo di fronte a uno dei migliori esempi proposti da questa breve selezione: la tecnica filmica è raffinata e attenta a raccontare, anche solo per immagini, i cambiamenti della Cina. Il film infatti, sfruttando un doppio filone narrativo che intreccia due vite accomunate dal dolore, si fa portavoce di una costruzione più corale, che arriva ad abbracciare tutte le storie potenziali e non espresse dei cittadini cinesi. L’occhio di Jia Zhang-ke ci mostra un paese in continuo cambiamento, dove la natura cede il posto alla meccanizzazione del paesaggio e, sembra quasi suggerire, dei sentimenti. Si tratta di un tema ricorrente nel cinema orientale (cinese e giapponese in primis), che mostra come sia traumatico il cambiamento repentino subito da questi paesi nel secondo dopoguerra.
Due anni dopo il suo trionfo internazionale, Ang Lee torna a sbancare Venezia nel 2007 aggiudicandosi il Leone d’Oro per il film Lussuria: Seduzione e tradimento. Anche in questo caso la pellicola proposta da Ang Lee ruota intorno a una difficile storia d’amore: attraverso la cornice della Storia, il regista racconta con toni sentimentali una parte delicata del passato della Cina: Shangai viene mostrata occupata dai giapponesi e questo è sintomatico di un desiderio di rivalsa dei paesi orientali dallo strapotere nipponico esercitato nel corso della loro espansione nel Pacifico. La protagonista, una giovane donna di straordinaria bellezza, decide di unirsi a un gruppo di rivoltosi per arrivare ad uccidere un rappresentante del governo imposto dai giapponesi. Il loro rapporto però si complicherà sempre di più e la donna finirà con l’innamorarsi, innescando una spirale etica sospesa fra le ragioni del cuore e quelle politiche. Il dramma sentimentale prende presto il sopravvento sulla componete politica, in realtà solo accennata e il film si conferma un perfetto esempio di prodotto di genere con una firma d’autore.
Dopo un triennio di dominio orientale, il Leone torna nelle mani degli USA nel 2008, grazie a Darren Aronofsky (già autore apprezzato per titoli come Il teorema del delirio, Requiem for a Dream e più recentemente Noah) che propone il film The Wrestler. Grazie a una straordinaria interpretazione di Mickey Rourke, Aronofsky riesce a confezionare una pellicola assolutamente convincente che, pur raccontando la storia di un lottatore, non si concede eccessive invasioni all’interno del ring (come accade ad esempio nei celebri film di Stallone) e preferisce concentrarsi sulla vicenda umana del protagonista, cosa che peraltro gli permette di amplificare ancora di più la bravura del suo protagonista. Anche qui, come in altri casi, le luci della ribalta sono tutte per un perdente, un lottatore che, esaurito l’apice della sua carriera, cerca di rimettersi in carreggiata e di riflettere su sé stesso e sulla sua esistenza. Le atmosfere basse, quasi fetide in cui Rourke viene a trovarsi sono il perfetto controcanto alla dissoluzione fisica e psicologica del suo Io, raccontata dal regista senza pietismi o pose stereotipate.
Samuel Maoz riesce portare un film di guerra a Venezia e viene premiato con il Leone d’Oro. Un grande successo per il regista che, in Lebanon, racconta il conflitto israeliano-palestinese con toni inediti e lontani da qualsiasi retorica giornalistico-televisiva confezionata. Tutta l’azione si svolge all’interno di un carro armato, con il rumore dei motori e dei cingoli che accompagnano l’evolversi della vicenda. In questo contesto vengono a definirsi in maniera chiara i ruoli umani dei singoli personaggi, che si qualificano o come degli inetti o come degli spietati aguzzini. Ciò che conta è che, nel proporre una tematica complessa e controversa come questa, Maoz abbia saggiamente scelto di occuparsi del lato umano della vicenda, evitando colpevolizzazioni o semplificazioni all’interno di un teatro di guerra dove la complessità e senza dubbio la cifra qualificante.
Un altro dei film che è riuscito a spaccare in due la critica e il pubblico è senza dubbio Somewhere di Sofia Coppola. La regista, dopo un esordio straordinario con Il giardino delle vergini suicide, sembra essersi richiusa su sé stessa, se si considerano film come Marie Antoniette, Lost in Translation e soprattutto il recente The Bling Ring. In questo caso la Coppola compone un film parzialmente ispirato alla sua vita e propone la storia di una star del cinema che passa le sue giornate nelle anonime ma accoglienti stanze di un lussuoso hotel di Los Angeles bevendo e frequentando donne. La realtà è però ben più drammatica e presto il nostro uomo si renderà conto di essere fondamentalmente solo: sarà la necessità di doversi occupare della sua giovane figlia a fargli rimettere in discussione le proprie priorità, arrivando a fargli ventilare l’ipotesi che nella vita esistano altri valori fondanti oltre a quelli che ha conosciuto. Le intenzioni potevano anche essere buone, ma nei fatti il film appare eccessivamente lento: questo, unito a una caratterizzazione dei personaggi piuttosto schematica, fa del film una sorta di macchietta di sé stesso: è a tutt’oggi piuttosto inspiegabile la motivazione del riconoscimento.
Fra i registi russi contemporanei è indubbio che Sokurov occupi un posto di primo piano, per la sua capacità di utilizzare le nuove tecnologie digitali in modo convincente e soprattutto autoriale, senza cioè rinunciare alla complessità cinematografica. Nel 2011 la vittoria del Leone è dunque meritatissima con il film Faust, rilettura dell’omonima opera di Goethe. Parte di una tetralogia ispirata al potere, il film racconta la vicenda umana di Faust, scienziato che vive confinato come una sorta di eremita all’interno di un laboratorio sporco e disordinato. L’incontro con il Demonio gli fornisce l’occasione di realizzare i suoi desideri, fra cui quello di fare sua la giovane e affascinante Margarete. Da lì Faust intraprenderà un viaggio epico ai confini dell’esistenza per superare i concetti stessi di potere e tentazione. Imponente sia nella durata che nell’impostazione scenica, Faust è un film sull’errore e sul suo carattere inevitabile, sulla necessità degli individui di errare senza sosta eppure di essere continuamente uniti, anche se questa vicinanza provocherà senza dubbio morte e dolore. Un film potente e tragico che racchiude in maniera esemplare il cinema di Sokurov e un possibile senso della vita.
Kim Ki-duk, regista coreano fra i più apprezzati dell’attuale panorama internazionale, è ormai un abitudinario di Venezia. Quest’anno ha proposto il suo nuovo film One on one, ma è senza dubbio con Pietà che il cineasta ha raggiunto il suo riconoscimento più importante. Anche in questo caso si tratta secondo molti di una scelta controversa e bisogna riconoscere che, all’interno dell’ampia filmografia di Kim, Pietà rappresenta un punto di svolta non facilmente assimilabile. Dopo la crisi depressiva che lo ha colpito qualche anno fa (ma che ha portato alla genesi di un capolavoro come Arirang), Kim Ki-duk sembra essere tornato sui suoi passi, proponendo un cinema sporco e spesso violento, più simile a quello dei suoi inizi che alla stagione dei grandi capolavori come Ferro 3. Pietà racconta un dramma familiare in cui il rapporto madre-figlio si riverbera su tutti i personaggi secondari, orribilmente mutilati e spesso uccisi dal protagonista. Kim propone qui un nuovo cinema della violenza, difficilmente assimilabile alle sue produzioni precedenti. Forse un Leone d’Oro alla carriera sarebbe stato più indicato?
Dieci anni e un solo italiano. È il 2013 e Gianfranco Rosi fa il botto con Sacro Gra, film girato interamente attorno al Grande Raccordo Anulare di Roma. Si tratta di un progetto molto interessante, che in un certo senso ridà vita a un (non) luogo di cui si sente molto parlare ma di cui non si vive nulla. Le storie raccontate da Rosi sono diverse e non tutte dello stesso tenore: serietà a tratti speculativa e ironia si bilanciano in una formula funzionale ed efficace, che controbilancia una struttura altrimenti troppo grave. Tutto sommato, però, sembrerebbe che il film si sia assestato su una maniera cinematografica formalmente perfetta ma piuttosto fredda. Si è a lungo parlato de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, accusandolo di avere adottato uno stile chirurgico, anonimo e barocco, ma se in quel caso la scelta poteva essere anche parzialmente giustificata, per Sacro Gra la scelta dello stile risulta parzialmente inadeguata al desiderio di restituire una dimensione umana e locale al Raccordo.