Perché bisogna fare ancora poesia

«Ho una confessione da fare: non capisco la poesia». Comincia così Why Poetry, il libro scritto dal poeta, editore e professore americano Matthew Zapruder. Una pubblicazione (in prosa) nella quale l’autore sottolinea quanto è (ancora) importante fare poesia. «The poet is always our contemporary» (Virginia Woolf) si legge tra le prime citazioni del libro, per ricordare che in ogni grande poeta c’è qualcosa che ce lo rende vicino, nonostante gli anni, talvolta i secoli, di distanza da quando i suoi versi sono stati scritti. La poesia è, infatti, un’alchimia che fa dei protagonisti dei versi degli archetipi, incarnazioni di sentimenti ed emozioni nei quali tanti altri possono riconoscersi.
Why Poetry è un viaggio nel quale Zapruder porta il lettore con sé, ripercorrendo la sua relazione con la poesia, cercando di spiegare il suo innamoramento. Un libro che è anche un dialogo dell’autore con le poesie alle quali è più legato, tra le quali L'unica cosa che può salvare l'America di Ashbery, una delle prime poesie lette da Zapruder a una conferenza. A seguire altri versi che hanno segnato il percorso dell’autore, che struttura il libro attorno ai temi ad essi legati. Il problema della disaffezione per la poesia sta, secondo Zapruder, nel modo in cui ci viene insegnato a leggere i versi. O meglio, nel fatto che ci viene insegnato un modo di leggere i versi, facendoci pensare che esista un approccio giusto, e uno solo. Ognuno dovrebbe invece – come consigliava anche Walt Whitman – «possedere l’origine di tutte le poesie», senza bisogno di insegnanti o guide.
Se è vero infatti che la poesia richiede un’attenzione che a molti sembra nascondere un codice segreto, questo non significa che i versi siano basati su delle regole che solo alcuni riescono a capire. Bisognerebbe invece – sostiene l’autore americano – partire dalle parole e dal significato letterale e solo successivamente andare a cercare i messaggi simbolici, le risonanze, diverse da persona a persona. La poesia somiglia, infatti, ad un essere vivente che si rivolge a ciascuno in modo differente. È come un amico, con il quale bisogna sempre cercare un’esperienza diretta. E più lo si conosce, più ci si rende conto che c’è sempre qualcosa in più da interiorizzare e comprendere.
Uno dei più grandi nemici della poesia è, quindi, il metodo di lettura dei versi, che impedisce di apprezzare la poesia in modo autentico e personale. Quello che suggerisce allora Zapruder è un metodo di lettura semplice. In Why Poetry il poeta americano elenca anche una serie di concetti e di ostacoli che spesso scatenano nei lettori quel senso di inadeguatezza che rende difficile avvicinarsi e apprezzare la poesia: il ritmo, le metafore, i simboli, la capacità negativa citata da Keats come l’abilità di perseverare nelle incertezze senza cedere alla tentazione di cercare fatti e ragioni. Fare prosa è, secondo Zapruder, molto più difficile che comporre poesia. Scrivendo versi si deve pensare, esplorare, mettere tutto in discussione, un lavorio mentale che manca nella narrazione in prosa.
Come si può, infine, rinunciare alla poesia quando è l’unica lingua liberata dall’utilità? È solo in questa libertà, in questo rifiuto di ogni scopo, che sta la differenza tra uno scrittore e un poeta. In un momento in cui si guarda alle letture quasi costantemente come forma di conoscenza, Zapruder sostiene che si debba continuare a fare poesia perché può aiutarci a vivere in un orizzonte e con un scopo più grandi. La poesia conduce infatti a uno stato di libertà che si accompagna a una grande consapevolezza, proponendosi come uno degli ultimi baluardi dell’immaginazione.