A che (terribile) punto siamo in Siria

Foto in copertina: in fuga da Goutha (Omar Sanadiki / Reuters).
In questi giorni il conflitto in Siria entra nel suo ottavo anno, con un bilancio di almeno mezzo milione di persone uccise e più di undici milioni costretti ad abbandonare le proprie case, di cui sei milioni fuggite all'estero in quella che è la più grave crisi di rifugiati dei tempi moderni. Cominciata nel marzo 2011 da un’insurrezione popolare nata sulla scia della Primavera Araba, la guerra di Siria nasce come reazione al regime di Bashar al-Assad, il cui governo ha portato a un'escalation nella limitazione delle libertà civili. L’insurrezione ben presto si è trasformata in un sanguinoso conflitto civile e poi in una guerra che ha coinvolto potenze internazionali. Il presidente non è mai stato vicino a lasciare il potere.
Fazioni e alleati. Negli anni si sono delineate quattro diverse fazioni: quella del governo di Assad, i gruppi di ribelli, le forze curde e l’Isis. Le forze contrarie al regime, prive di equipaggiamenti adeguati e di un’ideologia unificatrice al di fuori dell’odio per Assad, non sono riuscite ad eclissare il potere del presidente, che nelle grandi città come Damasco e Aleppo riesce ancora a mantenere la sua posizione grazie al cruciale supporto di Iran e Russia. Proprio la Russia è, infatti, entrata nella guerra nel 2015, giocando da allora un ruolo decisivo per il governo siriano, di cui difende la posizione anche all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fronteggiando Stati Uniti, Francia e Regno Unito, che sostengono gli oppositori del regime.
Il fronte Goutha Est. A sette anni dall’inizio della guerra uno dei luoghi più caldi è il fronte del Ghouta Est, alla periferia di Damasco, roccaforte dei ribelli, che da un mese le forze governative stanno bombardando con un attacco aereo senza precedenti. Attacco che ha avuto conseguenze disastrose soprattutto per i civili, portando alla distruzione di almeno tredici ospedali e al bombardamento di più di venti, spingendo l’Unicef a rispondere con un comunicato in bianco, scrivendo di «non avere parole» per descrivere la sofferenza dei bambini. Più di dodicimila sono le persone che stanno fuggendo dalla zona, approfittando di una pausa umanitaria invocata dalla Nazioni Unite, che continuano a sottolineare la necessità di creare un corridoio umanitario per i civili. La quantità di profughi sta peraltro alimentando il timore che gli sfollati arrivino in aree già sovraccariche e dove sono presenti ribelli sostenuti da forze estere, islamisti e alleati del presidente Assad.
La situazione si fa sempre più drammatica, acuita da delicate questioni geopolitiche, come quella dei curdi, che vede la Turchia opporsi agli Stati Uniti. La causa indipendentista curda è, infatti, per uno stato diviso come la Turchia di Erdogan uno strumento di unione; mentre per gli Stati Uniti i combattenti curdi sono una risorsa per combattere l’Is. In questo delicato equilibrio le forze turche stanno ora assediando Afrin, città curda nel Nord del paese, una mossa cruciale per espellere dalla zona le Unità di Protezione Popolare (YPG), l’ala armata della coalizione politica curda.
Un futuro condannato. La guerra di Siria è stata fin dal principio molto diversa dalle altre insurrezioni scoppiate dopo la Primavera Araba nella regione. Nata su un groviglio geopolitico di delicate alleanze e relazioni internazionali, a farne le spese sono stati lo Stato siriano e i suoi cittadini. Se prima del conflitto il Paese aveva un reddito medio, ora la situazione potrebbe essere recuperata solo in venti, trent’anni dalla fine del conflitto. Per la ricostruzione sarebbero necessari almeno 200 miliardi di dollari, per i quali, diversamente da quello che è successo in Iraq e Afghanistan, non si potrebbe fare grande affidamento sugli aiuti internazionali, dato che i finanziatori esteri sono titubanti sulla possibilità di inviare aiuti verso uno Stato ufficialmente governato da un regime colpevole di crimini di guerra. Tutti sanno che è arrivato il momento di fare qualcosa per fermare il conflitto, ma nessuno ci riesce. O ha sufficiente potere e volontà per farlo.