Radicchio selvatico e capretto Il menu della nostra tradizione

Tutte le feste hanno in Italia una connotazione mangereccia e conviviale, e non esiste luogo sulla penisola che non abbia sviluppato, in secoli di tavole apparecchiate, e ricettari tramandati, una propria ritualità per le grandi occasioni, fatta di gesti, piatti e usanze, che in molti casi hanno resistito fino ai giorni d’oggi, anche se, come è prevedibile, alcune hanno subito le influenze della modernità. Ma come era la Pasqua nella bergamasca? Cosa si mangiava? Come e quando si stava a tavola e soprattutto, qual era il piatto principale delle nostre tavole di una volta?
Il modo migliore è chiedere ai bergamaschi di raccontarci come hanno sempre vissuto una delle feste più importanti dell’anno e una delle occasioni di ritrovo che richiedevano adeguati festeggiamenti. Di certo i dolci non erano il punto forte del pranzo, e di certo non si vedevano molte uova di cioccolato, ma quelle semplici delle galline, specialmente decorate e portate a far benedire, erano un’usanza molto sentita e che accomunava praticamente tutte le famiglie della bergamasca. Abbiamo chiesto a tre donne di raccontarci i ricordi della loro Pasqua.




Fiorella. È l’anima della Trattoria Visconti di Ambivere (qui sopra nelle foto). Cresciuta in questa osteria, oggi frequentato punto di riscoperta della tradizione locale (apprezzato anche da fuori provincia), ha un ricordo della tavola pasquale che si mescola con quella apparecchiata per gli avventori della trattoria che, nel Lunedì dell’Angelo, affollavano i tavoli bevendo vino e giocando a bocce: «Mi ricordo che la tavola del giorno di Pasqua era molto simile a quella delle altre domeniche, una festa sì, ma senza un vero menù dedicato.
Mi ricordo molto bene invece del Lunedì di Pasquetta, quando i clienti venivano in trattoria, a casa mia; venivano dal paese e dagli abitati limitrofi portandosi dietro dei panieri con le uova già cotte, il radicchio e del pollo freddo. Si usava apparecchiare fuori, i tavoli erano allestiti all’aperto per goderne del cambio di stagione che cominciava a farsi sentire. Si riunivano tutti nel pomeriggio e si faceva una merenda. Il radicchio era quello novello, le prime foglioline tenere che spuntavano, quello tra il verde e il rosso che è di fatto la prima verdura che cresce. Alcuni portavano le foglie di tarassaco lessato e condito, anche quelle erano le prime piante che crescevano con l’inizio della primavera, quando ancora sono tenere da masticare e dal gusto solo leggermente amaricante. Una tradizione importante era quella che riguardava le uova: il venerdì santo si andava nel pollaio e si salvano le uova, le si facevano bollire e le si mangiavano poi sode in compagnia il giorno dell’Angelo. Altri arrivavano con la loro gallina già cotta, pronta da mangiare, fredda, e la merenda era fatta, solo qualcuno ordinava una scodella di trippa, che noi facevamo (e facciamo ancora) con le verdure e senza pomodoro. Il dolce? Mi ricordo una ciambella semplice con lo zucchero sopra e dei biscottoni a forma di colomba ricoperti con la granella di zucchero».
La tosatura della pecora nella Bergamasca
Giovanna. «Mi ricordo che a casa nostra, in quel giorno, sicuramente si mangiava il capretto che teneva lo zio. Mi ricordo che mio nonno aveva vinto in una lotteria della Parrocchia un capretto e lo aveva regalato a un parente, che da allora a ogni Pasqua si sentiva in dovere di restituire il dono. Lo si cucinava alla bergamasca, come il coniglio. La torta pasqualina, che adesso è molto comune, non era affatto un piatto della nostra usanza. Un'altra tradizione era quella di conservare le uova del venerdì santo, che venivano consumante sode la domenica. Insieme si mangiavano le prime verdure della stagione: gli asparagi, il radicchio selvatico che cresceva nei prati e le prime foglie tenere di insalata. A pasquetta si andava sempre via, a camminare in montagna e ci si fermava a mangiare in una frasca un pasto semplice, apparecchiato con qualche formaggella e dei salami nostrani, e ovviamente il vino non mancava mai».
La pasquetta di una volta
Lisetta. «Mi ricordo il capretto o l’agnello fatto al forno o anche alla brace con un po’ di verdure di stagione, ai miei tempi erano tutti nostrani, molti li allevavano ancora nel cortile di casa. E poi le uova bollite che, secondo la tradizione, erano quelle fatte dalle galline durante il venerdì santo: venivano raccolte, segnate con una croce e poi fatte bollire insieme alle altre, ma quelle segnate venivano fatti a pezzetti e distribuite tra tutti i commensali nel giorno di festa. Erano sempre benedette al momento della Resurrezione, poi c’era chi le colorava, chi le decorava, e infine si dividevano tra tutti i componenti della famiglia. Non c’era un vero primo piatto perché, come da tradizione, sulle tavole si era abituati a mangiare la polenta, poi nel tempo sono arrivate le lasagne e i ravioli di magro. La colomba non mancava, e chi era bravo a fare le torte preparava di solito una semplice margherita fatta a forma di uovo. La Pasquetta si andava sempre in campagna con qualche avanzo del giorno prima per un pic-nic: si appoggiava la tovaglia sul prato e si divideva quello che c’era con chi si era aggiunto alla scampagnata. Spesso il pane lo si preparava nel forno di casa perché era un giorno di festa e i fornai non lavoravano. Uova di cioccolato? Erano molto rare ai miei tempi! Mi ricordo che il primo lo vidi soltanto a dieci anni, quando ci fu regalato da un amico di famiglia. Lo facemmo benedire in chiesa e lo dividemmo fra tutti i componenti della famiglia, un pezzettino a testa».