Gritti, il campione di Vertova Settant’anni vissuti sgasando
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«La sera, dopo il lavoro, scendo giù in garage. Vado a trovare le mie trenta moto, mi metto lì a discutere un po’ con loro. Ne scelgo una e ci parlo. Lei mi dice quello di cui ha bisogno e io lo faccio». L’uomo che sussurra alle motociclette ha settant'anni e la voce di tuono. Anche se il contachilometri dell’età non si ferma, Alessandro Gritti è ancora un eroe. Lo è stato negli anni Settanta e Ottanta, quando vinceva tutto nel cross e nella regolarità (14 titoli nazionali, 5 titoli europei e 2 di squadra alla Sei Giorni). E continua a esserlo oggi, quando va a fare l’enduro in giro per l’Italia e riesce ad arrivare ancora tra i primi. «Fatica? Mai, la moto non è fatica. È soltanto passione. Si fa più fatica a lavorare. Invece io mi diverto ancora». Il 28 e 29 sarà a Montecampione per il Trofeo “Onore al Capitano”, gara intitolata ad Augusto Taiocchi e organizzato dall’amico e pilota di enduro e rally africani Claudio Terruzzi. Tre figli (Giovanni, Mirco e Sabrina), due nipotini (Alessandro di 7 anni e Morgana di 3), di fare il nonno in poltrona Gritti non ne ha voglia. «Esco la mattina presto e torno la sera, vado in cava. Ma l’edilizia è in crisi, non si costruisce quasi più. Il mercoledì sera ci ritroviamo da quarant’anni in una pizzeria qui a Vertova con gli amici di sempre. Siamo in venti, qualche volta in cinquanta. Chiacchieriamo di moto, di ricordi, di tutte le cose che ci appassionano».
Quando è nata la passione per la moto?
«Da ragazzino mi affascinava il rumore. Parliamo degli Anni Cinquanta e non c’erano queste gran moto. Per me era un sogno salirci. Con gli altri ragazzi andavamo in giro con le bici. Infilavamo una cartolina nei raggi per fare rumore. Giovanni, mio fratello di nove anni di più, aveva una moto. E allora quando lui era a lavorare, ci salivo e stavo attento a non far cadere il cavalletto».
Lei ha vinto tutto. Qual è stato l’anno super, quello davvero indimenticabile?
«Forse il 1975. Riuscii a vincere il titolo europeo e quello italiano di enduro e anche quello italiano di motocross. O forse il 1981. Vinsi anche la Sei Giorni, oltre al resto».
Nel 1977 la nominarono Cavaliere della Repubblica. Con Sara Simeoni, Klaus Dibiasi e Piero Mennea.
«Non ci ho mai dato troppo peso. Mi chiamò il Questore, mi disse che c’era un riconoscimento. La festa più bella per me è stata un’altra».
Quale?
«Nel 2016, tornato dalla Sei Giorni in Francia. La Federazione mi ha premiato con una medaglia d’oro. C’era molta gente. È stato emozionante».
Quest’anno la Sei Giorni la corrono in Cile. Ci ha fatto un pensiero?
«Sto diventando anziano, è troppo lontana» (ride, ndr).
Alessandro Gritti nel alla Six Days del 2016, in Spagna, a 69 anni
Chi è il suo rivale di sempre?
«In Italia sicuramente Gualtiero Brissoni. Tra gli stranieri ho avuto a che fare con assi del calibro di Sturm, Stodulka, Witthoft. Veri fenomeni».
Ha una moto preferita?
«Sicuramente la Ktm, con la quale ho raccolto le più belle soddisfazioni. Comunque anche della Kramit ho un bel ricordo».
Dell’Atala, la prima, che ricordo ha?
«Era una delle prime motorine con la seconda marcia rotta. Facevo prima-terza. Erano altri tempi, con mille lire andavamo a comperare le moto dal rottamaio. Anche il Guzzi, “ol Guzzì 765”. Si rompeva tutti i giorni».
Com’erano quegli anni?
«La domenica andavamo alla cava, avevo 14 anni, e stavamo tutto il giorno a fare i salti. Andavamo a messa la sera, la mattina preparavamo le moto».
Quanto è cambiata la moto negli anni?
«Molto, le cose si sono evolute. Io ho cominciato nel lontano 1966, correvo nella regolarità e al debutto vinsi il campionato junior classe 100. Di anni ne sono passati...».
Era più difficile?
«Non lo so. Però nel ’67 fui chiamato al servizio militare ed entrai nelle Fiamme Gialle, il gruppo sportivo della Finanza, a Roma. Dovevo restarci un anno e invece me ne andai dopo cinque, con in tasca tre campionati italiani conquistati con Morini nella 175».
Come se la ricorda l’esperienza di Roma?
«Per me era una novità. Ma partimmo in cinque o sei da Vertova. Avevamo in testa solo le moto, andavamo con la Vespa fino alle scalinate di San Pietro. Era tutto più libero. Ci allenavamo a Vallelunga, facevamo cinquanta chilometri. E poi avevamo la nostra pista di moto privata dentro la caserma. Giravamo anche lì».
Ha mai fatto un altro sport?
«No. Solo moto».
Che Italia era quella di allora?
«All’epoca prendevo settantamila lire al mese, però avevo un avvenire. Non c’erano certi problemi, era tutto più bello. E tutti si volevano bene».
A un giovane cosa consiglierebbe?
«È dura. È diventato anche un discorso di prezzi. Ma io non sono mai stato all’altezza di dare dei consigli».
Ha mai avuto paura?
«Mai. Ho avuto tanti incidenti, qualche volta mi sono svegliato all’ospedale. Però davo quasi sempre la colpa a me. Perché la moto è un’amica. Bisogna conoscerla bene, se non la conosci magari ti fa cadere. E bisogna tenerla a posto».
E l’adrenalina la sente ancora?
«Non so che cos’è, c’è solo la voglia di andare in moto ancora».
Ha mai pensato di smettere?
«Vivo alla giornata. Se ho voglia di andare in moto, vado. E chi mi ama, mi segua. Ci sono sempre due o tre amici che vengono con me sulle mulattiere o in pista».
Come si mantiene in forma?
«Non faccio diete. Bisogna mangiare e bere. Meglio se in tavola c’è un buon bicchiere di vino».