Quando le facciate di Città Alta erano dipinte dai grandi artisti
Foto Bergamopost/Mario Rota: piazza Mascheroni.
Manifestazioni emblematiche della cultura visiva dell’Italia tra il Quattrocento e il Seicento, le “facciate dipinte” sono oggi al centro di un movimento, avviato negli Anni Ottanta, di riscoperta e di conservazione che ha interessato alcune città italiane (Genova, Trento, Verona, Firenze...). Tuttavia, nonostante l’importanza quantitativa dei casi conservati o documentati e l’autorevolezza degli artisti che ne sono stati i protagonisti (come Mantegna, Giorgione, Tiziano, Pordenone, Vasari, Polidoro da Caravaggio, Tintoretto, Taddeo Zuccari), questa particolare forma decorativa è rimasta per la storiografia artistica un oggetto di studio generalmente “periferico”.
Va certo detto che il fenomeno della pittura murale esterna (un vero e proprio fenomeno culturale consistente nella pratica, da parte di reggenti a vario titolo, di raffigurare sulle pareti di determinati ambienti lo spazio su cui si esercita il potere) va messo in relazione col raggiungimento di una certa stabilità politica ed economica e così la moda delle facciate dipinte diviene una sorta di affermazione di potenza economica e sociale. Specchio della città, le facciate, riflettono l’evoluzione del gusto e dello stile e sono un importante termometro della committenza civica.
Questo vale certamente anche per Bergamo con l’instaurazione della Repubblica di Venezia che significò per la città la cessazione di angherie e soprusi. L’assoggettamento a Venezia, nel 1428, genera per la nostra città una ridefinizione dello spazio urbano, a cominciare dalle residenze scelte dai rettori veneti: il capitano nella Cittadella e il podestà nell’edificio che chiude il lato occidentale di Piazza Vecchia, costruito alla metà del Trecento dalla famiglia Suardi. In questo contesto si colloca, intorno al 1475, il quasi contemporaneo arrivo in Bergamo di Vincenzo Foppa (con il Polittico delle Grazie), di Giovan Antonio Amadeo (Decorazione scultorea della Cappella Colleoni) e di Donato Bramante con gli affreschi del Palazzo del Podestà.
Opere assai diverse ma accomunate in un processo unitario di rinnovamento. Tema linguistico comune è infatti la ricerca di far rifluire il tradizionale decorativismo lombardo in una concezione spaziale modern a. Donato di Pascuccio detto il Bramante, dall’Emilia (nasce a Monte Asdruvaldo presso Pesaro) si sposta in Lombardia e approda a Bergamo dove tra il 1477 e il 1478 realizza la decorazione della facciata del Palazzo del Podestà in Piazza Vecchia simbolo del potere della Serenissima. L’intera facciata, fino ad allora anonima e asimmetrica, viene rivestita di pitture che la trasfigurano completamente, in una impresa sbalorditiva per modernità, potenza illusionistica e forza cromatica. All’architettura reale si sovrapponeva un’architettura dipinta che incastonava, tra le vere finestre del palazzo, finti spazi aperti su cieli azzurri, abitati da figure gigantesche: i Sette Saggi tramandati dall’antichità greca accompagnati dai loro motti filosofici appuntati su cartigli, libri e tavolette. Solone, Epimenide, Pittaco, Periandro e Chilone, queste le figure che oggi possiamo identificare, scrutavano dall’alto i cittadini orobici, celebrando la saggezza, la ragione ma anche la...»