L'impresa di Viscardi

Il silenzio e il nulla della Lapponia per 420 chilometri di traversata

Il silenzio e il nulla della Lapponia per 420 chilometri di traversata
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Quattrocentoventi chilometri percorsi in sette giorni, in mezzo alla neve della Lapponia, con ai piedi gli sci di fondo. È l’impresa compiuta lo scorso marzo da Fabrizio Viscardi, dalminese di 54 anni, impiegato tecnico in un’azienda di telefonia, insieme a un gruppo di altri dieci amici, di cui sette bergamaschi e tre monzesi. Insieme hanno preso parte alla maratona non competitiva Rajalta-Rajalle, che ha visto partecipare sciatori da tutto il mondo: americani, giapponesi, tedeschi, spagnoli, finlandesi, russi. Un’esperienza alla quale Viscardi, che scia da oltre trent’anni, non ha voluto rinunciare: «Mi sono fatto il regalo che non mi ero concesso per i miei 50 anni».

L’idea di partecipare a questa manifestazione sportiva è nata in seno al gruppo di amici. Stanchi di gareggiare nelle competizioni amatoriali in Italia e all’estero, hanno deciso di fare qualcosa di diverso e hanno trovato nella maratona in Lapponia l’esperienza che stavano cercando. «È un’iniziativa che viene organizzata da 35 anni – spiega Fabrizio –. Una traversata della Lapponia, dal confine russo a quello svedese. Il percorso si snoda proprio al di sotto del Circolo Polare Artico, non molto distante da Rovaniemi, la città ufficiale di Babbo Natale. Eravamo nella Lapponia finlandese». Freddo? «Sì, tanto freddo. Per due giorni il termometro alla partenza segnava meno 20 gradi, ma quando ti addentravi nei boschi la temperatura era ancora più bassa. Però è un freddo bello, diverso dal nostro. La neve è fine fine, ghiacciata, non è come la nostra che ti si attacca addosso. Quella non dà quasi fastidio. Eravamo ben attrezzati per affrontare il gelo. Il segreto è mantenere caldi le mani e i piedi facendo tanto movimento».

 

 

Sette le tappe, ognuna intorno ai 40-45 chilometri, tranne quella più lunga, che arrivava a 88 chilometri. Non essendo una gara, ognuno affrontava il percorso con il suo ritmo, senza bisogno di correre. Per chi non ce la faceva o decideva di cimentarsi solo in una parte del percorso, l’organizzazione metteva a disposizione dei bus che venivano a prenderti e ti portavano a destinazione». Lei lo ha mai preso quel bus? «Sì, il giorno della tappa lunga. Avevo promesso a mia moglie che non avrei rischiato, così ne ho fatta poco più della metà, anche perché ero stanco, non ero molto allenato e mi sarei perso il divertimento, volendo completare il percorso a ogni costo». Lungo il tracciato punti ristoro, cibo e bevande calde per rifocillare i partecipanti. Fabrizio era partito con barrette energetiche e acqua in borraccia, ma non gli sono serviti: «L’acqua mi si è congelata il primo giorno e le barrette non le ho mangiate, dato che l’organizzazione era ottima e al cibo ci pensavano loro».

I ritrovi serali per i novanta partecipanti alla maratona erano in alberghi, tranne una notte in cui «il punto di arrivo era in un gruppetto di tre o quattro case in mezzo al nulla. Ci hanno fatto dormire in uno stanzone, tipo una palestra, con il nostro sacco a pelo. Le altre notti invece eravamo in hotel. La mattina ci alzavamo presto, colazione abbondante e poi via a sciare tutto il giorno. Il sogno di una vita. Quando arrivavamo a destinazione facevamo la sauna, cenavamo, facevamo il briefing sulla tappa del giorno successivo e poi a dormire. A volte alle 20.30 eravamo già sotto le coperte».

 

 

Il cibo era buono? «Diciamo di sì. Tante zuppe, wurstel, carne di renna, verdure sottolio e sotto aceto, conserve, patate, salmone. Tanto burro. Cibi calorici ins omma». Qual è la cosa che ha amato di più di questa esperienza? «Il silenzio e la solitudine. Lì parti in gruppo ma sulla lunga distanza ognuno prende il suo ritmo e capita di sciare per ore in completa solitudine. Ti guardi in giro e vedi tutto bianco, sembra di essere in una cartolina, con gli abeti carichi di neve che pare incollata, fatta di zucchero. Hai tanto tempo per pensare in quei luoghi, è come una meditazione».

L’ultima sera i novanta temerari della Rajalta-Rajalle l’hanno trascorsa in un bell’albergo e hanno anche organizzato uno spettacolo dove ogni gruppo, diviso per nazionalità, si doveva esibire in qualcosa di tipico della propria terra. Voi cosa avete proposto? «Abbiamo cantato Noter de Berghem! Da buoni alpini ed ex alpini non potevamo che farci una cantata».

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