Sapori antichi e novità

La nuova vita dei Tre Gobbi raccontata da chef Carminati

La nuova vita dei Tre Gobbi raccontata da chef Carminati
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La sua “conformazione” pare fatta apposta per raccontare la sua nuova anima. Perché l’Osteria Tre Gobbi, tra le più antiche di Bergamo, ha due facce, nella forma ma anche nella sostanza. Partiamo dalla prima: gli ingressi sono due. Il principale al 20 di via Broseta, con un’area caffè a dare il benvenuto alla clientela e, poco più avanti, una saletta accogliente dai tavoli in legno e le pareti dipinte; il secondario è invece in via San Lazzaro, nel cuore di Borgo San Leonardo, agghindato con un semplice ma caratteristico berceau che mette voglia di sedersi e osservare il mondo scorrere. E la sostanza? Be’, oggi la sostanza ce la mette chef Marco Carminati (35 anni), che dopo due anni di affiancamento agli storici titolari Marco Ceruti e sua moglie Nives, ha intrapreso un cammino solitario in questo piccolo tempio della cucina tradizionale bergamasca.

 

 

Chef Carminati, è giusto parlare di un nuovo inizio?

«Forse è più corretto dire che è la logica evoluzione di un percorso».

Iniziato quando?

«Per l’Osteria, nel 2016, quando ho iniziato a lavorare qui come dipendente».

E per lei?

«Per me il percorso è iniziato circa un anno prima».

Partiamo da lì.

«Sono laureato in Ingegneria chimica. E per dodici anni ho fatto l’ingegnere chimico di professione. Mi piaceva, però...».

Però mancava qualcosa?

«No, semplicemente la mia passione era la cucina. Così quando un amico mi ha chiesto una mano per seguire un po’ con lui l’hamburgeria che stava aprendo a Grumello del Monte, gli ho detto di sì».

E com’è andata?

«Bene. Tant’è che ben presto il “dargli una mano” s’è trasformato in un vero e proprio lavoro in più. Dalle 8 alle 17.30 lavoravo in azienda, poi mi riposavo una mezz’oretta e dalle 18 alle 2 di notte lavoravo all’hamburgeria. Alla fine ho deciso di lasciare il primo lavoro e di buttarmi sulla cucina».

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Come ci è arrivato ai Tre Gobbi?

«Il percorso del mio amico è andato in una direzione e io ho cominciato a cercare la mia strada. Che mi ha portato a Bergamo, da Marco e Nives».

I Tre Gobbi sono la classica osteria d’un tempo. Era qualcosa di diverso dal ristorante come lo intendiamo noi.

«Vero. È un locale che adoro, con una storia che inizia nei primi dell’Ottocento ed è ricca di personaggi, vita. Marco e Nives per vent’anni hanno seguito con amore i Tre Gobbi, mantenendone l’anima di osteria. Marco non era e non è un chef, i suoi piatti erano buoni ma semplici, magari preparati dalla mamma prima. Era un vero oste».

E lei, invece?

«Io sono più cuoco rispetto a lui. Il mio regno è la cucina, anche se sto imparando a vivere molto di più anche la sala».

Cuoco ma autodidatta. Anzi, un autodidatta stellato.

«Questa cosa colpisce sempre tutti. Sì, diciamo che mi sono formato andando a mangiare in moltissimi stellati. Negli anni, ho “raccolto” qualcosa come 280, 290 Stelle Michelin. In Italia i tristellati e bistellati li ho visitati praticamente tutti. E anche all’estero ne ho provati molti. Ma non è che vado soltanto in quelli, eh».

Anche perché s’è scelto un hobby abbastanza costoso... È per questo che ha scelto di farsi il suo ristorante? Per risparmiare?

(Ride, ndr) «Inconsciamente, può essere. In realtà qui ho avuto l’occasione di mettermi alla prova, di sperimentare, di dare una forma diversa ai sapori che ho incontrato lungo la mia strada. E così, quando Marco e Nives hanno deciso che era arrivato il momento di andare in pensione, non ci ho pensato due volte».

Tradizione e innovazione: come trova l’equilibrio?

«Non è facile. Ma è giusto così. Questo locale necessita della tradizione. Allo stesso tempo, però, la cucina bergamasca si presta bene a essere un po’ reinventata...».

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In che senso?

«Nel senso che, a differenza di quella di altre zone d’Italia, è una cucina povera. Non abbiamo tantissime ricette tradizionali. Questo favorisce la creatività».

Quindi darà nuova vita a polenta e casoncelli?

«Proprio perché i piatti della tradizione bergamasca sono pochi, secondo me meritano di non essere toccati. I miei casoncelli li fa ancora la mamma, come vuole la tradizione. Anche se una volta ho provato a giocare e ho dato vita a una versione dolce dei casoncelli, con ripieno di foie gras e cioccolato. Ma era più un gioco che una vera idea di piatto».

In quale piatto, allora, riesce a trovare una maggior commistione tra tradizione e innovazione?

(Ci pensa un po’, ndr) «Direi nell’anatra, ad esempio. Che è una carne “povera”, da cortile, eppure buonissima. Io la preparo in due versioni, una più particolare e una più classica ma con l’aggiunta di un brodino di Fernet Branca molto particolare».

Il nuovo menù offre piatti decisamente diversi rispetto al passato e varia di periodo in periodo. Come mai questa scelta?

«Io dico a tutti che il mio menù rispecchia fedelmente i miei gusti. C’è poca frutta e poca verdura, ad esempio, perché non le amo particolarmente».

Non teme di perdere il lato “osteria”, così?

«Non voglio perderla e spero che non accada. Quello che amo di questo posto, oltre alla sua storia, è la varietà delle persone che lo frequentano. Siamo aperti dalle 7 alla cena, orario continuato. Qui vengono i ragazzi che escono da scuola per uno snack, l’operaio in pausa pranzo, il turista e la coppietta. Ognuno cerca qualcosa di diverso e il mio compito è soddisfare tutti. I prezzi sono leggermente aumentati, ma c’è ancora il pranzo di lavoro a prezzo fisso».

Visto che è ingegnere chimico, qual è la formula giusta allora?

«Bella domanda... Non so quale sia, sinceramente. Il mio obiettivo è offrire un’esperienza positiva a chi viene qui, proponendo anche piatti più particolari ma a prezzi accessibili. Noi abbiamo una tradizione culinaria pazzesca e al ristorante vogliamo mangiare bene. Allo stesso tempo, però, credo che una grande differenza la faccia il servizio. Per dire: quando vado da Da Vittorio, che è tra i migliori ristoranti al mondo, oltre che gustare una cucina di livello altissimo, mi trattano meravigliosamente. Ti senti coccolato, ben voluto. Sono bravissimi in questo. E io vorrei riuscire a fare la stesso, nel mio piccolo. Voglio che i Tre Gobbi restino un luogo dove si sta bene, com’è da quasi due secoli. Solo con un menù diverso».

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