«La mia forza? Mia moglie»

«Noi alpinisti non siamo degli eroi Lo è invece chi ci aspetta a casa»

«Noi alpinisti non siamo degli eroi Lo è invece chi ci aspetta a casa»
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Gli alpinisti, si sa, sono sempre un po’ burberi e solitari: meglio un picco isolato alla caotica ressa della città. Chi conosce la montagna ha sentito nominare, almeno una volta, il nome di Mario Curnis. Ottantatré anni, originario di Nembro, la montagna la porta disegnata sul volto. Di vette ne ha conquistate tante, dalle nuove vie aperte sulle Orobie nella stagione invernale fino alle Ande peruviane, passando per le grandi cime himalayane. Spedizioni che non parlano solo di montagna, ma soprattutto di amicizia, passione e sacrificio. Curnis ci attende con la moglie Rosanna in una bella baita ristrutturata nella parte alta di Nembro. Tra il tepore del camino accesso, davanti a un bicchiere di vino e a una fetta di “pane dei pastori” (tipica pagnotta valtellinese), inizia il racconto. «Ho sempre sognato di vivere in una baita come questa - esordisce -. Quando rientravo dalle prime gite pensavo che le persone fortunate fossero quelle che abitavano in montagna, che potevano vivere questi luoghi tutti i giorni. Questa baita si è rivelata nel tempo la soluzione migliore, non è troppo lontana dal paese e ci permette di restare a contatto con la natura».

 

Mario Curnis

 

Lei ha sempre sognato anche di fare il rifugista...

«È vero, ma non era un lavoro indicato per il mio carattere, sono sempre stato troppo duro».

Quando le è nata la passione per la montagna?

«Fin dai primi anni la montagna per me significava libertà. Il primo alpinista che ho conosciuto fu Leone Pellicioli, anch’egli di Nembro e negli anni '50 gestore del Bar Alpino, punto di ritrovo per tutti gli alpinisti del paese. Lo vedevo tornare ogni domenica insieme agli altri, contenti per la bella giornata trascorsa tra le vette. Li vedevo appagati. Da lì ho iniziato a seguirli e ho capito che quello era il mio mondo».

Quanti alpinisti ha conosciuto in tanti anni?

«Ho “rampato” praticamente con tre generazioni diverse. In Grignetta, sempre da ragazzo, ho incontrato per la prima volta Walter Bonatti, Riccardo Cassin e Mauri. Ricordo bene che Bonatti mi chiamò: “N’dondet tè, biùndì? Vieni ad arrampicare con noi?”. Quel giorno salii in cordata con lui la via Albertini e la via Lecco. Ci sono poi stati negli anni i “grandi” conosciuti nelle spedizioni, come Reinhold Messner, Renato Casarotto (a cui io e mia moglie siamo stati molto legati) e tantissimi altri. Negli ultimi anni ho conosciuto Simone Moro, un altro alpinista con una marcia in più, proprio come Messner».

Con Moro siete diventati amici.

«Sì, con lui è nata una bella amicizia e un rispetto reciproco, nonostante la differenza di età».

Buon ultimo Denis Urubko, alpinista kazako ora residente a Nembro.

«Con lui ho condiviso la salita agli Snow Leopard nel 1999 e la spedizione all’Elbrus nel 2015. Io sono sempre stato burbero, oggi come allora, e se devo rimproverare qualcosa ai miei compagni di cordata, o fargli notare qualche sbaglio, non esito sicuramente a farlo. Simone e Denis lo sanno benissimo».

Com’era arrampicare nei primi anni?

«Non sono mai stato un tipo facile. Andavo in montagna con chi volevo e come volevo, e se un compagno non mi piaceva lo facevo subito presente e la cordata si rompeva sul nascere. Io, poi, non sono mai salito per la gloria. Se arrivo in cima bene, altrimenti ci tornavo un’altra volta. E il giorno dopo tornavo al mio lavoro di muratore comunque felice. Tanto le montagne non scappavano».

Come è riuscito a coniugare la famiglia con la montagna?

«Sono stato un uomo fortunato: non sono mai rimasto a casa una sola domenica e il cinquanta per cento della mia forza era dato da Rosanna, che ha sempre assecondato il mio hobby. Era bello tornare la domenica sera, o dopo una spedizione, e trovare la porta aperta con tua moglie e i tuoi figli che ti accoglievano con il sorriso. Rosanna mi ha sempre aiutato in tutto: apriva la casa gli amici prima e dopo le spedizioni e si documentava sulle arrampicate che affrontavo. Passava da una casa gremita a una casa vuota, magari anche per tre o quattro mesi filati. Ecco perché l’alpinista non è un eroe. Eroe è chi aspetta il ritorno a casa».

La sua prima spedizione in Himalaya?

«Sull’Everest, nel 1973, sotto l’organizzazione di Guido Monzino. Ero l’unico non militare e non raggiunsi la vetta per dissapori con il capo squadra. È stato un viaggio duro e costoso, durato ben quattro mesi».

Cosa ricorda di quella stagione himalayana?

«L’alpinismo, soprattutto in quegli anni, ha portato benessere anche alle persone del posto. È stata portata l’acqua in luoghi prima inaccessibili, sono state costruite scuole e ospedali, frutto dei soldi ricavati nelle spedizioni, ma anche della generosità di alcuni alpinisti».

Le spedizioni che ricorda di più?

«Quella allo Scudo del Paine in Patagonia, nel ’68, per la prima salita estiva. E la spedizione alla sud del Lhotse nel 1975 organizzata dal Cai Nazionale, dove ho arrampicato quasi sempre con Messner. Il capo spedizione era Cassin, che allora aveva 66 anni e raggiunse comunque quota 6600 metri. Aveva il carattere e il carisma perfetto per essere il leader della spedizione. Nel tentativo al Lhotse c’erano tutti i più bravi alpinisti di quei tempi. Messner mi guardò e disse: “Questa via riusciranno a farla d’inverno solo fra trent’anni”. E cosi è stato».

 

 

La sua memoria è uno scrigno...

«Nel 1981 tentammo per la prima volta il Makalu in invernale. All’andata, per raggiungere il campo base, impiegammo sei ore. Al ritorno, a causa delle forti nevicate, ci vollero sei giorni. Cadevano due metri di neve al giorno e pensavo di morire. Anche in questo caso, la via è stata completata da Simone Moro e Denis Urubko nel 2009, quasi trent’anni dopo».

Le maggiori difficoltà?

«Le spedizioni sono sempre state durissime, soprattutto in Himalaya e in Patagonia. E io ripeto sempre una cosa: se sono riuscito a cavarmela in certe circostanze non è perché ero più forte o più bravo, ma perché fin dall’infanzia avevo sofferto la fame e il freddo. Io ho sempre lavorato, estate e inverno, per sessant’anni. Adesso i giovani pensano che sia tutto facile, non sanno cosi significhi fare trenta chilometri in bicicletta per andare al lavoro, magari sotto la pioggia in pieno inverno. Ma si cresceva temprati e la vita ai miei tempi faceva selezione, i più deboli soccombevano».

Cosa è cambiato?

«Oggi la maggior parte dei giovani vuole fare tutto di corsa: restano al campo base il meno possibile e cercano i record di velocità sulle pareti più difficili del mondo. Durante una spedizione bisognerebbe lasciare il cellulare a casa e concentrarsi solo su quello che si sta facendo. La mente deve restare alla parete e all’arrampicata, libera e sgombra da pensieri, perché un errore può costarti anche la vita. Ho visto persone ai campi base chiamare casa due volte al giorno per avere notizie della famiglia, dei bambini e del lavoro. È sbagliato».

Oggi la fretta è padrona...

«Quando ero sull’Everest nel ’75, mia moglie Rosanna era incinta del nostro secondo figlio. Non è che noi allora non pensassimo ai nostri cari, anzi. Ma il problema è che adesso non si ha più la forza di staccarsi da questi “aggeggi elettronici”. Non si può vivere senza telefonino, almeno in montagna? La rinuncia a volte ti rende più forte».

Proprio come successe a lei sull’Everest per due volte...

«È accaduto nel 1973 e poi ancora nel 1994. Quando Simone (Moro) mi propose di salire con lui nel 2002 sapeva che stavo aspettando quel momento da trent’anni. L’Everest è stato per me un po' come il K2 per Bonatti. Accettai subito la proposta di Moro. Lui mi chiese di conquistare prima il Cho Oyu, ma io gli dissi di no. M’interessava un’altra montagna ed ero andato per quella, salire una vetta diversa avrebbe potuto precludermi l’ascesa all’Everest».

In quell’occasione lei usò il telefono.

«Quel giorno ho fatto l’unica telefonata della mia vita da una vetta. Simone aveva il satellitare e ho voluto dire a Rosanna che avevo raggiunto il sogno di tanti anni».

E le nostre Orobie? Nascondono ancora segreti?

«Nascondono nuove ascese, ma anche riscoperte. Ci sono ancora salite entusiasmanti da fare, soprattutto in inverno. Durante la stagione invernale le Orobie non sono uno scherzo e nemmeno una passeggiata. Fa un freddo cane! Quando ho fatto la prima traversata invernale delle cinque cime dal Coca al Redorta, nel 1971, si trovavano montagne di neve nel vero senso della parola. Per arrivare al Brunone impiegammo due giorni! Per quella traversata, prima assoluta in invernale, ho tentato per cinque inverni e cambiato diciotto alpinisti. Oggi ci sono ancora vie bellissime e scarsamente ripetute, che meritano attenzione. La traversata in cresta per esempio, compiuta da me e Simone nel 2000, non è più stata ripetuta».

Come ha vissuto questi anni di alpinismo?

«La montagna per me è sempre stata una cosa molto seria. Un piacere e una gioia che non ho mai condiviso troppo con gli altri, e che sopratutto non ho mai mischiato al profitto o alla gloria. Non ho avuto sponsor e non mi interessava di mostrare quello che facevo. La montagna era un mondo che arricchiva me stesso e il mio archivio di diapositive da mostrare alla mia famiglia. Ci sono anche i diari tenuti in tanti anni, scritti anche sulla carta igienica durante le spedizioni».

Com’è il mondo della montagna oggi?

«Voglio dire ai giovani che dovrebbero imparare ad apprezzare questo mondo partendo dalle piccole cose. La montagna non è solo “fare gradi” o scalare pareti in tempo record. La montagna è anche quello che ci circonda e fermarsi in baita a chiacchiere con gli amici davanti al camino accesso. Oggi nei rifugi ci si siede a gruppetti. Ai miei tempi si faceva un’unica tavolata tutti insieme, si cantava e si beveva un bicchiere di vino in compagnia. Tutta un’altra atmosfera».

Cosa è successo nel 2010?

«Abbiamo perso tutto in seguito al fallimento della mia impresa edile. All’inizio il mondo mi è crollato addosso, anni di lavoro spazzati via per colpa di quella che a me sembrava un’ingiustizia. E come se non bastasse, mi venne diagnosticato un tumore alla prostrata. Mi sentivo annullato e preso in giro. Ancora una volta capii che avevo bisogno delle mie montagne, della pace e della tranquillità».

E?

«Mio cognato aveva delle capre sotto le pendici del monte Blum, in Val Seriana, e per problemi familiari non riusciva più a prendersene cura. Decisi di andare io e mi sono anche fermato in maniera stabile per circa un anno. Con il tempo le cose sono tornate alla normalità, anche se non è stato facile. E sono guarito, sia dalla malattia che dalla depressione che mi avevano colpito. Sono tornato a casa felice e più forte, con una consapevolezza: quello che ho perso è stato tanto, ma quello che ho guadagnato è stato molto di più. Oggi viviamo con circa mille euro al mese, ma siamo felici di quello che abbiamo. Per quanto possa sembrare strano, non siamo mai stati così bene. Questa posso dire che è stata la più grande scalata che ho fatto, e l’ho fatta con accanto mia moglie».

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