Facciamo un monumento a Gimondi
Un monumento popolare: Felice in bicicletta che ci ricordi non soltanto chi è stato questo uomo della Valle Brembana, ma che ci dica ogni giorno che cosa voglia dire essere il meglio di noi stessi.
Caro sindaco,
sono d’accordo con chi dice che con Gimondi sia morta una persona che ha incarnato il meglio dell’essere bergamaschi. Lo si legge da venerdì sera su tutti i social, sui giornali. Gimondi tenace, Gimondi che non molla, Gimondi che affronta la sfida con Merckx, superiore a lui, senza arretrare, senza cedere. Gimondi protagonista di un dramma che è quello di ogni uomo: la sfida della vita, tanto più potente di ciascun singolo uomo, solo sul cuore della terra. Gimondi e Merckx, il campione e il cannibale. Il cavaliere e il drago. Quel Gimondi che non mollava mai è diventato per tutti i ragazzi e i giovani di quella generazione non semplicemente un campione per cui fare il tifo, da seguire alla televisione in bianco e nero, è stato un modello. Mettercela tutta, sempre, non mollare mai. E poi magari perdere, ma con la consapevolezza di avere fatto tutto il possibile, di avere buttato nella lotta anche l’ultima goccia di energia. E allora poi la capacità di accettare la sconfitta.
Tenacia, forza, onestà, fatica. Il meglio dell’essere bergamaschi. Il sudore a fiumi, il viso stravolto dalla sofferenza delle gambe che spingono in salita per non perdere la ruota del rivale terribile. Ma gli occhi fissi, fermi. La generosità di non risparmiarsi mai, di volere vincere. Per sé e per chi ci sta vicino.
Un modello per i bambini, i ragazzi, i giovani di quegli Anni Sessanta e Settanta. E poi rilanciato ai figli, ai nipoti. Un giorno sono andato con Felice Gimondi e Tino Sana (suo grande amico, grande imprenditore) in una seconda media a parlare con i ragazzini che avevano sentito parlare di lui dai nonni. Lo hanno ascoltato incantati per due ore. Eppure lui non era un oratore. Ma anche nelle sue parole vibrava un senso di onestà, di forza, di generosità. E i ragazzi stavano lì, muti e attenti.
Caro sindaco, io penso che sia venuto il momento di regalare alla nostra città un nuovo monumento. Non mi piacciono molto i monumenti. Esprimono in genere retorica, enfasi, esagerazione. Spesso rappresentano l’espressione del potere che vuole creare una mitologia. Basta vedere i vari Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi sparsi per l’Italia, Bergamo compresa.
Ma un monumento a Felice Gimondi dobbiamo farlo. Un monumento popolare, un monumento del cuore. Come quello di Manzù al partigiano. Come quello di Garibaldi che hanno messo all’isola della Maddalena. Come quello di Trieste a Joyce e a Svevo. Non sul piedistallo, ma accanto alla gente. Nessuna ricerca spasmodica dell’effetto e nemmeno eroismi o retorica. Un Felice Gimondi in bicicletta, sulla strada che sale, la faccia segnata dalla fatica, con i capelli mossi dal vento e il sudore che gli cola dalle tempie. Un monumento semplice, popolare, che ci ricordi non soltanto chi è stato questo uomo della Valle Brembana, ma che ci dica ogni giorno che cosa voglia dire essere il meglio di noi stessi, che ci spinga a pedalare e a non mollare mai, anche se la vita è più forte, è un titano, e qualche volta ci schiaccia, ci fa cadere. Un monumento che incoraggi, che ci dica che noi pedaleremo lo stesso e arriveremo in cima dando semplicemente il meglio che possiamo. Nulla di più. Come Gimondi.
Caro sindaco, ci contiamo. Con affetto.