In memoria di Roberto Bruni

«È vero, l'ho tirato proprio matto Ma lui s'è vendicato (col sorriso)»

«È vero, l'ho tirato proprio matto Ma lui s'è vendicato (col sorriso)»
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Anche il cerbero onorevole delle valli orobico prealpine ha un’anima. Scavando a fondo al di sotto della sua rude epidermide, si può trovare un cuore. Eh sì, il gallico non è solo ormoni incontrollabili, ma nutre anche dei sentimenti. E, come gli avi visigoti che onoravano i loro peggiori nemici, dopo però averli squartati, anche l’eletto discendente dei cenomani è capace di provare profondo rispetto verso i suoi avversari più valorosi. Tra questi anche l’ex borgomastro dell’antica Berg-heim, Roberto Bruni.

Come insegnano i condottieri, l’onore per il nemico non può essere mostrato prima o durante la battaglia, ma solo dopo. Altrimenti hai già perso. Ma quando l’avversario si arrende oppure scompare, ecco che anche il celtico onorevole si sente in diritto di rendere omaggio al rivale.

Ma andiamo indietro di qualche anno. Era la primavera 1995. A Bergamo si profilavano le prime elezioni comunali dopo il tracollo della vetusta Prima Repubblica e il ribaltone del primo governo Berlusconi, avvenuto pochi mesi prima. A guidare la legione orobica dei barbari leghisti c’era un giovane esemplare, cerebralmente indefinito, di pasdaran in salsa prealpina. Uno che qualche anno dopo, 23 per l’esattezza, sbarcando nel postribolo di Montecitorio è diventato il simbolo da un lato del degrado della società italica, dall’altro del motto «c’è speranza per tutti». I rimasugli del pentapartito (Psi, Dc, Pri, Pli, Psdi) fanno una corte spietata ai trinariciuti leghisti. Si organizza una riunione. Questi ram-polli della borghesia illuminata cittadina, ormai però in decadimento, incontrano i barbari bossiani. Il giovane cerbero è lì, nella sala ad aspettarli. Da solo. Arrivano, entrano tutti insieme. Almeno una dozzina. In dodici per rappresentare al massimo il 2 per cento. Il cenomane, invece, è da solo ma conta il 25 per cento dei suoi concittadini. È uno scontro di civiltà: da un lato il passato, con l’intelligentia orobica, dall’altro il futuro, barbaro. La prima battuta dell’austrolopiteco, vedendoli così numerosi, li gela tutti: «Ma òter i fai sò ol pullman?».

Quando poi uno di loro, anni dopo, diventa sindaco, ovvero il socialista Bruni, la battaglia, dura, ha inizio. C’è di tutto: dalla rievocazione di Pearl Harbour per i cartelli Bèrghem fatti rimuovere durante il Ferragosto, proprio come i giapponesi che attaccarono di sorpresa, al conseguente contrattacco leghista in occasione della rimozione della statua di Arlecchino, con il truce che fa risuonare nella sacrale aula consiliare l’ode di un casco sbattuto con forza sul banco; dagli epici scontri a suon di decibel tra il vichingo e il sindaco, al soave, ma penetrante sarcasmo raccolto in due libri, Tempi Bruni a Bergamo, scritti dal primitivo, che raccontano i cinque anni di amministrazione sinistra. Come abbia fatto a scrivere cinquecento pagine è ancora un mistero, lui abituato a...

 

Articolo completo a pagina 7 di BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 19 settembre. In versione digitale, qui.

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