L’urlo del bar di via Broseta 84 al gol di Pasalic, cioè la storia
Quando il bar esplode e la scaffalatura con le riviste e i libri crolla, nessuno ci fa caso perché siamo tutti in piedi e stiamo urlando e anche Antonio grida anche se qualche libro lo ha preso in testa e sulle spalle, ma non importa perché questo è il momento storico, questo il momento che aspettavamo da quella sera del 1988 in cui battemmo lo Sporting Lisbona e ci qualificammo alla semifinale della Coppa Uefa. Oggi siamo alla Coppa dei Campioni. Champions League. Sono le nove meno un quarto di questa sera gelida e Pasalic ha segnato il secondo gol, quello definitivo: il bar è esploso in un’esultanza ancora più forte delle precedenti. Perché se l’uno a zero di Castagne ha acceso la speranza, ma anche la paura, il gol di Pasalic ci dice che è quasi fatta, è il momento liberatorio: sul due a zero e undici contro dieci, venire raggiunti è quasi impossibile. La paura si spegne, la gioia si accende. L’urlo del bar di via Broseta 84 scuote il condominio, scuote la via, perché oltre ai quaranta tifosi stipati davanti al bancone e nella saletta, ci sono anche quelli che se ne stanno fuori e guardano la partita dalla vetrina e fumano una sigaretta dietro l’altra. È la gioia che ci fa abbracciare anche chi non conosciamo, che accende gli occhi, che fa urlare, che ci dice quanta energia, quanta voglia di vita c’è in ognuno di noi.
Dieci minuti prima della partita, il bar è già gremito. È l’84 di via Broseta, che a ogni partita dell’Atalanta schiera una bella squadra di tifosi. Ma oggi è strapieno. Francesca è seduta vicino a me insieme a suo marito Antonio, ciclista e gentiluomo, visibilmente contratto: sente il match. Francesca invece è tranquilla e dice: «Vinciamo, stasera». Rispondo che non sarà facile. Ma lei è convinta e spiega: «Vinciamo perché nelle ultime partite l’Atalanta ha capito come deve muoversi. E per un’altra ragione: da qualche settimana siamo in credito con la fortuna. Ci sono state decisioni degli arbitri ed episodi che ci hanno penalizzati. Ma la fortuna prende e dà. Questa sera ci ricompenserà».
La partita comincia, le signore del bar, una delle due indossa la maglietta dell’Atalanta, servono birra e aperitivi. In platea quaranta uomini, cinque donne e un bambino, Lorenzo, anche lui con la maglietta nerazzurra. Siamo circa al tredicesimo quando Papu spara al volo, servito da Muriel, e il bar trema. Un minuto dopo la doccia gelata: gol dello Shaktar. La solita azione penetrante, quel loro attaccante imprendibile, il cross, il batti e ribatti e il piattone… gol! Siamo tutti lì, immobili, ma subito qualcuno grida: «Il Var, il Var!». Il sospetto del fuorigioco ci tiene in vita, la ripresa televisiva fa capire che si tratta di centimetri… Suspense, mani gelate, sguardi tesi. Nicola e Riccardo, davanti a me, fissano lo schermo, muti. E poi ecco, la profezia di Francesca si avvera, il caso ha giocato a nostro favore, per pochi centimetri: Teté, propulsore dell’azione, era in fuorigioco, il gol di Kovalenko non vale. Per qualche centimetro, per un caso. Ha deciso la Fortuna.
Si ricomincia e uno degli ultras che non è riuscito a essere dei Cinquecento di Kharkiv è qui e urla: «Non c’è entusiasmo, non c’è entusiasmo… Siamo contratti». Mi accorgo che in platea c’è anche un barboncino in braccio a una signora. È il minuto trentasette quando lo Shakhtar parte in contropiede e la paura ci stringe la pancia come una tenaglia: il colpo di testa di Moraes è terribile, di quelli che fanno malissimo, Gollini salta come un canguro, recupera la mano rimasta indietro e miracolosamente riesce a deviare il pallone sopra la traversa. Grande Gollo, bravissimo. E un pizzico di Fortuna. Ancora. E poi avanti, nel secondo tempo la musica è ancora più nerazzurra, il gioco si fa spumeggiante, Gomez è meglio di Messi, diciamolo, e detta il gioco. Ma dopo venti minuti è ancora Gollini che salva il risultato. Il bar è teso, tesissimo. Eppure, un minuto dopo, ecco il gol di Castagne, bravissimo a insistere sulla linea di porta! Ma sembra che ci sia il fuori gioco di Gomez… La sofferenza raggiunge il limite, l'ultras finito al bar invece che a Kharkiv urla: «Crediamoci, crediamoci! È gol, è gol!». Sarà anche così, ma noi siamo lì con gli occhi incollati al cinquanta pollici, mani fredde e sudate. La signora fruttivendola non fiata, la Claudia davanti a me tace. Con la coda dell’occhio guardo Francesca che non dice niente, ma sorride.
Allora è gol. E infatti è gol!!!
L’esplosione ve la lascio immaginare. E poi anche il seguito. Alla fine si alza il grido: «A Orio, a Orio!!!». Poi le voci si accavallano, ma ce n’è una dominante: «Adesso voglio andare a Barcellona. Barcellona! Adesso Barcellona! Andiamo sulla ramblas, e ’n ghe fa et cosa lè l’Atalanta!». Esco dal bar, sorrisi e pacche sulle spalle; saluto Francesca, la abbraccio, ammirato e devoto.