La colonizzazione “made in China” dei mercati italiani (e bergamaschi)
Il 16 ottobre si è aperta, a Milano, la decima edizione dell’Asem, il meeting euro-asiatico che punta a rafforzare la cooperazione e il dialogo tra due aree geopolitiche tra le più influenti al mondo. Il premier Matteo Renzi, che ha incontrato il primo ministro cinese Li Keqiang, ha dichiarato: «In questo momento è molto forte l’attenzione degli investitori cinesi verso il nostro paese e ne siamo ben felici». Il problema è che, secondo molti, l’attenzione degli investitori cinesi non è solo molto forte, bensì troppo forte. Negli ultimi anni, i capitali cinesi hanno piantato diverse “bandierine” sulla mappa economica nostrana, acquisendo partecipazioni in società fondamentali negli equilibri finanziari dell’Italia. Una boccata di aria fresca per uno Stato messo in ginocchio dai colpi di una crisi apparentemente senza fine, ma anche il rischio di consegnarsi totalmente agli sbalzi di umore di padroni lontani che hanno, inoltre, contribuito (non poco) alla chiusura di diversi poli manifatturieri italiani.
Come mette in luce il rapporto “La Cina nel 2014”, edito da Fondazione Italia-Cina e Cesif, dal 2007 al 2013 le aziende italiane partecipate da cinesi sono passate da 7 a 272: 187 completamente cinesi, 85 partecipate da multinazionali con sede nella terra del Dragone. Complessivamente, i capitali cinesi in Italia danno lavoro a circa 12 mila persone. Un’escalation confermata anche dalla Rothschild, che ha stimato che il 10% degli investimenti cinesi nel Vecchio Continente sono stati compiuti nel Belpaese.
L'incontro, il 16 ottobre, tra il premier Renzi e il "collega" cinese Li Keqiang.
Il commercio sarà sempre più cosa cinese. Per capire quanto questa “conquista” cinese della nostra economia sia non solo un affare nazionale, ma internazionale, basta dare un occhio alle stime della PricewaterhouseCoopers (Pwc) relative al commercio mondiale del 2030: varrà quasi il doppio di quello odierno (da 10 miliardi ai 18 previsti), crisi o non crisi, e la Cina sarà la protagonista assoluta delle principali tratte commerciali. Precisamente, il Sol Levante sarà presente in 12 delle prime 20 rotte commerciali mondiali. Per capirci, gli Stati Uniti e la Germania saranno presenti solamente in 5 delle prime 20 rotte commerciali mondiali. Tradotto, il potere economico, da qui ai prossimi 15 anni, si sposterà, inevitabilmente, da Occidente a Oriente. Per questo gli investimenti che la Cina sta compiendo oggi in Italia stanno attirando l’attenzione di sempre più potenze, non ultima la Russia, che fino ad oggi era stata la principale “colonizzatrice” dei nostri mercati.
Dalla finanza all’industria, passando per l’energia. C’è una netta differenza, però, tra gli investimenti fino ad oggi compiuti dai russi e quelli che stanno invece compiendo i cinesi. Se i primi si sono concentrati sui mercati del lusso e dell’extralusso, i cinesi hanno preferito diversificare, investendo in ogni mercato possibile. Non a caso molti li hanno paragonati a degli “spazzini” dei mercati: investono pochi miliardi dove c’è tanta crisi e sperano di ottenere un ritorno. Spazzini quindi, ma certo non scellerati. Passo dopo passo, il Dragone ha teso le sue zampe su gran parte dei mercati nostrani. Come illustra approfonditamente Linkiesta, gli investimenti cinesi sono sempre stati oculati e mai avventati. In ambito finanziario, invece dei tanti piccoli istituti di credito in crisi, ha puntato su due colossi: Assicurazioni Generali (di cui la People’s Bank of China detiene il 2%) e la Cassa Depositi e Prestiti (la China Development Bank Corporation sta concludendo in questi giorni l’affare, per una partecipazione di circa 4 miliardi di dollari). Nella telefonia, i cinesi non solo sono i padroni dell’operatore telefonico “Tre”, ma, attraverso la banca centrale cinese, detengono anche il 2% circa di Telecom. È di pochi giorni fa, invece, l’accordo da 645 milioni di euro tra la China Investiment Corporation e il Fondo Strategico Italiano, possessore del 46,2% di Metroweb Italia, gestore della fibra ottica milanese.
Telecom Italia
Ansaldo Energia
Prysmian, ex Pirelli Cavi
Anche le macerie della grande industria italiana vedono i cinesi protagonisti: la People’s Bank of China detiene il 2% circa sia di Fca (ex Fiat) che di Prysmian (ex Pirelli Cavi). La Xiameng King Long United Automotive Industry ha invece acquisito l’80% della BrendaMenarinibus, produttore di autobus del gruppo Finmeccanica. A preoccupare di più Stati Uniti e Germania, però, sono i recenti (e pesanti) investimenti cinesi nel mercato dell’energia italiano: a luglio, la State Grid Corporation of China ha pagato 2 miliardi di euro il 35% di Cdp Reti, società controllata da Cassa Depositi e Prestiti che gestisce il 30% di Snam - Rete gas e il 29,8% di Terna (rete elettrica); a maggio la Shangai Electric ha investito 400 milioni di euro per acquisire il 40% di Ansaldo Energia, in crisi oramai cronica; l’onnipresente People’s Bank of China detiene anche il 2% circa di Enel (800 milioni d’investimento) ed Eni (1,3 miliardi). Come se non bastasse, i cinesi si stanno concentrando anche sul mercato dei trasporti e dopo i 250 milioni di euro investiti sull’Aeroporto di Parma, in molti si dicono sicuri che, attraverso gli accordi con il Fondo Strategico Italiano, i cinesi puntino Linate, Malpensa e lo scalo napoletano di Capodichino.
Anche Bergamo ha gli occhi a mandorla. Essendo, storicamente, uno dei principali poli industriali e manifatturieri d’Italia, anche la Bergamasca ha subito la “colonizzazione” del Sole Levante. Uno dei primi grandi gruppi a cedere al denaro sonante cinese fu il Gruppo Ferretti, proprietario della Riva di Sarnico, che per 347 milioni di euro è oggi proprietà del Shandong Heavy Industries Group - Weichai Group, colosso produttore di veicoli. A febbraio 2014 è stata invece la casa di moda bergamasca Krizia, uno degli emblemi del “made in Italy”, ad essere acquisita dal Shenzen Marisfrolg Fashion. Il fondo di private equity cinese Lunar Capital ha invece salvato lo storico marchio Pinco Pallino, specializzato nell’abbigliamento per bambini, acquisendone il 20%.
Davanti a questi dati, una domanda resta senza risposta: gli investimenti dalla Cina sono una boccata d’aria fresca per un'economia in crisi o la svendita di un intero mercato nazionale?