Libia, tre anni dopo Gheddafi che disse: «Senza di me il caos»
Il 20 ottobre 2011 i ribelli libici uccidono con un colpo alla testa Muhammar Gheddafi, per 42 anni padre-padrone della Libia. Il colonnello stava cercando di fuggire da Sirte, la sua città natale. Un mese dopo anche l’ultimo erede, il figlio Saif, viene arrestato. L’epilogo di Gheddafi arriva dopo 9 mesi di guerra civile, durante i quali il CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) ha controllato e gestito le aree in cui i ribelli si opponevano al regime. Nonostante il passato coloniale – la Libia è la prima nazione a liberarsi dal giogo colonialista nel 1951 – l’Italia partecipa attivamente all’intervento militare Nato, ufficialmente per proteggere i civili, di fatto per destituire Gheddafi e appoggiare i ribelli.
Con la fine del potere di Gheddafi, per la Libia si sarebbe dovuto aprire il capitolo del cammino verso la democrazia e la libertà. Il destino del Paese viene messo infatti nelle mani del CNT, cui è affidato il compito di guidare il Paese verso libere elezioni. Nel 2012 si vota e sale al potere Mahmud Jibril, con il partito moderato-liberale, evento che spezza il trend delle vittorie islamiste nei Paesi interessati dalle cosiddette primavere arabe. Lo scorso giugno nuove elezioni eleggono un parlamento che non trova però legittimazione in patria. Dalla rivoluzione del 2011, le autorità ad interim non sono riuscite a stabilizzare la situazione, né a costituire forze armate regolari, e per combattere i terroristi sono ricorse a vari gruppi di miliziani pro governativi, come le truppe del generale Khalifa Haftar, che ha intrapreso la cosiddetta Operazione Dignità per liberare la Libia dall’Islam radicale.
Un Paese sull’orlo del baratro (e un appello). Nel Paese, da quando è morto Gheddafi, c’è stato un omicidio politico ogni 12 giorni e la tortura sembra essere lo strumento più utilizzato contro gli oppositori, in base a quanto denunciato lo scorso anno da Amnesty International. A tre anni dalla morte del colonnello, il Paese sta precipitando sempre più nel baratro.
Diviso in tre zone geografiche, Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, con due governi e due parlamenti che si contendono la rappresentanza della popolazione, a farla da padrone in Libia ancora oggi è la guerra, tanto che Italia, Francia, Usa, Regno Unito e Germania hanno voluto lanciare un appello per riportare la calma nel Paese. In una nota la Farnesina condanna i crimini commessi da ambo le parti: «La libertà della Libia, per la quale si è combattuto duramente, è a rischio se i Libici e i gruppi terroristici internazionali sono autorizzati ad utilizzare la Libia come una zona franca. Siamo anche preoccupati dagli attacchi di Khalifa Haftar a Bengasi. Riteniamo che le sfide relative alla sicurezza della Libia e la lotta contro le organizzazioni terroristiche possano essere affrontate in modo sostenibile solamente da forze armate regolari sotto il controllo di un’autorità centrale, responsabile dinanzi ad un Parlamento democratico ed inclusivo». Se le violenze non dovessero cessare, i governi di questi paesi sono pronti ad adottare la politica delle sanzioni, secondo quanto previsto dalla Risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Cosa sta succedendo in Libia, esattamente. Negli ultimi mesi, gran parte del territorio della Cirenaica, l’est del paese, è caduto sotto il controllo di formazioni dichiaratamente jihadiste. Il pericolo Isis è concreto, ma la comunità internazionale esclude un intervento armato come invece sta avvenendo in Iraq e Siria. La Libia vive ormai una situazione di anarchia. Fazioni diverse controllano il territorio; le milizie di Misurata, legate alla Fratellanza musulmana, e quelle di Zintan, vicine al partito più secolarista di Mahmud Jibril, continuano a fronteggiarsi in Tripolitania. Il generale Khalifa Haftar cerca di riprendere il controllo dell’area di Bengasi. Il nuovo parlamento eletto nelle ultime elezioni di giugno, e riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale, si è rifugiato a Tobruk, quasi sotto protezione egiziana, mentre le forze islamiste hanno riconvocato il vecchio parlamento a Tripoli, minacciando il pieno controllo della Banca centrale e dei ministeri. Entrambi i governi sono incapaci di imporsi a livello nazionale.
Chi era Gheddafi. Per lungo tempo è stato lo spauracchio del mondo occidentale, considerato finanziatore di movimenti rivoluzionari e terroristici. Muhammar Gheddafi salì al potere in Libia a 27 anni, nel 1969, con un golpe contro la monarchia filo-occidentale del re Sayyd Hasan I. Da capitano dell’esercito divenne colonnello, in memoria dell’egiziano Nasser, suo idolo. Allontanò gli inglesi dal Paese chiudendo tutte le loro basi militari, e confiscò i beni ai tanti italiani ancora residenti dal periodo del colonialismo. Cacciati gli italiani, il colonnello diede vita a una repubblica in cui vennero aboliti i partiti e ridotte le libertà, chiamata Jamāhīriyya o “regime delle masse”. A guidarne il cammino fu il Libro Verde del 1975, in cui il colonnello riassunse il suo pensiero politico: un mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali. Nel 1979 rinunciò a ogni carica pubblica e mantenne il titolo di Guida della Rivoluzione.
Negli anni ’80 effettuò una revisione delle relazioni internazionali, riavvicinandosi ai Paesi europei e agli Usa. Pur restando personaggio controverso, ottenne credito internazionale, soprattutto per le sue posizioni durante le due Guerre del Golfo. Nella primavera del 2011 represse le rivolte nate in Libia sull’onda di quanto stava accadendo negli altri Paesi islamici di Medio Oriente e Nordafrica. Durante i decenni della sua dittatura Gheddafi nazionalizzò le proprietà petrolifere straniere, controllando l’intera macchina economica della Libia e decidendo con chi fare affari. La sua morte ha lasciato un Paese totalmente privo di istituzioni e di società civile. Uno Stato totalmente da inventare. Del resto, nei suoi ultimi giorni di vita lo stesso rais disse: «Senza di me sarà il caos».