Roma, anatomia di una disfatta
La Roma, nella sera di martedì 21 ottobre, è finita. Parliamo di calcio logicamente, indi per cui la squadra della lupa continuerà la sua storia, ma la Roma per come l’abbiamo conosciuta fino alla incredibile sfida con il Bayern Monaco, è finita. È finita la sua baldanza, il suo entusiasmo, la sua sicurezza ai limiti della sfacciataggine. E con la sua fine è morta anche la convinzione che il calcio italiano fosse tornato ai fasti di un glorioso passato. Quello che ora bisognerebbe capire è se si è trattato di omicidio o di suicidio. Nell’immediato post partita, evidentemente ancora sotto shok, il tecnico giallorosso Rudi Garcia, presentatosi innanzi ai microfoni, ha dichiarato: «La colpa è mia». Suicidio dunque? È innegabile, però, che la squadra bavarese allenata da Pep Guardiola rappresenti, oggi, il killer perfetto: rapido, elegante, una macchina da calcio implacabile, capace di stritolare in appena 30 minuti una delle due migliori squadre del nostro campionato. Omicidio dunque? Solo la minuziosa analisi dell’anatomia di questa disfatta può, forse, darci una risposta.
La verità sta nel mezzo. Come spesso accade, anche in questo caso la verità sta nel mezzo. La Roma si è suicidata, ma allo stesso tempo è stata uccisa. Perché sette gol non li prendi solamente per meriti dell’avversario, ma neppure per demeriti propri. Partiamo dai demeriti: Garcia ha detto il vero nel momento in cui ha dichiarato di aver sbagliato strategia, di aver lasciato troppo spazio al Bayern. Pensare di poter affrontare a viso aperto i tedeschi, con una difesa in parte raccapezzata e alcuni giocatori non al 100%, è stato un peccato di superbia che ha pagato a caro prezzo. La Roma è un’ottima squadra. Probabilmente, in Italia, è la squadra dal tasso qualitativo più alto, ma in Europa diventa una delle tante buone squadre in grado di creare problemi, non di dominare un avversario come i bavaresi. Ashley Cole, lasciato solo ad affrontare Robben, è l’emblema del match: il terzino inglese non ci ha capito nulla, neppure per un istante. Sempre puntato, puntualmente saltato. E, alla fine, è capitombolato innanzi all’evidente superiorità avversaria. Con lui, la Roma tutta.
Non si può però riassumere il match scaricando tutte le colpe su di un solo uomo. Totti, ieri sera, è stato impalpabile; Iturbe invisibile; Pjanic bloccato; De Rossi e Nainggolan, i gladiatori della mediana, addirittura impauriti; De Sanctis semplicemente non all’altezza, come il resto della difesa. Tutto questo traspare dai numeri: Xabi Alonso, il metronomo del centrocampo di Guardiola, ha toccato 119 volte il pallone, ha recuperato palla ben 13 volte ed è stato praticamente perfetto nel passaggio (97 riusciti su 103 tentati). Il suo alterego giallorosso, Pjanic, si è fermato a 61 palloni toccati, il migliore tra i romanisti. I giallorossi, più che giocare a calcio, hanno inseguito 11 avversari che parevano praticare uno sport diverso. Da Xabi Alonso a Lahm, da Lahm a Götze, da Götze a Müller, da Müller a Lewandowski, da Lewandoski a Robben. Un giro palla continuo, incessante, rapido, ben lontano dal tiki-taka di catalana memoria, ma molto più incisivo, verticale, tagliente e graffiante. La Roma inseguiva, con la lingua di fuori, e le poche volte in cui riusciva a recuperare palla, si vedeva immediatamente attaccata da un’orda bavarese, sempre pronta a fare un passo avanti occupando tempi e spazi, ma, soprattutto, occupando gli incubi giallorossi. E poi, alla fine, c’era sempre Robben.
Robben in cattedra. Com’è giusto che sia, la Gazzetta dello Sport dedica un articolo a Arjen Robben, definendolo il professore da cui la Roma è andata a lezione. Giustissimo. L’olandese ha fatto il bello e il cattivo tempo del match, coadiuvato da un magistrale gruppo di assistenti. I numeri dell’ala di Bedum sono impietosamente perfetti: 100 tocchi di palla (secondo della sua squadra); 4 tiri, di cui 2 nello specchio con 2 gol; 69 passaggi, di cui il 94% riusciti (solo 4 sono stati gli errori); 2 cross; 2 sponde; 6 occasioni da gol create; 5 dribbling tentati, 5 riusciti; 7 palloni rubati; 9,8 chilometri percorsi. Sostanza e qualità, tantissima sostanza (l’ha sbloccata lui, l’ha chiusa lui con lo 0 a 4) e tantissima qualità. Davanti trova un avversario inadatto alla sua classe, o, se vogliamo essere magnanimi, decisamente non in serata come Ashley Cole, ma Robben svaria, non si ferma, torna a prendere palloni a centrocampo, ad impostare, a verticalizzare. Iturbe, che dovrebbe fare almeno un terzo di ciò che fa lui, resta a guardare, immobile, dall’altro lato del campo. Il primo gol, l’uno a zero, quello che ha tagliato morale e gambe ai lupi (ahinoi, divenuti lupacchiotti) dopo appena 8’ è, inoltre, una meraviglia.
Non abbattiamoci però, noi amanti del calcio italiano. In Roma-Bayern non è finito il Calcio. Il Calcio, con la “C” maiuscola, ha trovato nuovo impulso, nuova vita. La Roma resta una squadra di qualità che, nonostante questo crollo, probabilmente, otterrà grandi risultati nell’immediato futuro. Ma è morta la convinzione che il nostro calcio (volutamente con la “c” minuscola) fosse finalmente tornato a vette elevate. Troppo il gap tecnico, troppe le lacune tattiche. E quindi, alla fine, poco importa se la Roma è stata uccisa o si è suicidata. Da sabato inizierà una nuova vita, sperando che, come ha detto De Rossi, la lezione sia servita. A noi come a loro.