Le origini della parola 'mafia' (non era sinonimo di criminalità)
Nell’uso linguistico comune la parola mafia è, purtroppo, tutt’altro che rara. Il sostantivo maffia deriverebbe da mafiusu, forse per suggestione della coppia camorra/camorrista. acquisito alla lingua italiana come prestito dall’arabo, forse da maḥyāṣ ‘smargiasso’, il cui derivato è maḥyaṣa ‘smargiassata millanteria’. Secondo alcuni, ma l’ipotesi è minoritaria, l’arabismo va invece ricondotto a mo’afiah ‘arroganza, tracotanza, prevaricazione’. Il sostantivo “mafiosi” è stato usato per la prima volta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, autori della commedia I mafiusi di la Vicaria di Palermu (1863). Giuseppe Pitrè, l’etnologo ante litteram che raccolse le fiabe popolari della Sicilia, nonché sodale di Giovanni Verga, precisò che il vocabolo non era stato coniato da Rizzotto. Nel borgo palermitano di Santa Lucia, dove era nato, lo si usava già correntemente. La “mafia”, ai suoi tempi, era bellezza, grandiosità, sicurezza e fierezza d’animo, baldezza. L’uomo di mafia era un uomo rispettato.
Nei dialetti centro-meridionali ‘mafia’, anzi maffia, era un sinonimo di ‘spocchia’: l’esibire la propria ricchezza, atteggiamento accettato in Sicilia, era considerato riprovevole. In bergamasco mafia è ‘donna di età mezzana’, nell’Isola d’Elba maffiona è ‘(donna) colla faccia piena e tonda’ e la locuzione, propria del gergo militare, significa far (la) maffia ‘sfoggiare lusso’. L’esibire la propria ricchezza, atteggiamento socialmente accettato in Sicilia, veniva interpretato negativamente al nord: il torinese mafi, mafiu è ‘tanghero’ e il milanese brüt mafee è ‘uomo brutto’. Forse, il termine “mafia”, inteso come comportamento spocchioso, è stato influenzato da Maffeo, variante di Matteo, appartenente alla serie dei nomi biblici in –èo con significato dispregiativo, come ha insegnato Bruno Migliorini. Unico tra gli altri apostoli, Matteo era un ricco pubblicano, uso ad offrire grandi banchetti e a mettere in mostra la propria ricchezza: a fare, cioè, la maffia.
Dall'Ottocento alle stragi degli anni Ottanta. Il significato della parola ‘mafia’ ha avuto una storia in parte indipendente dal movimento a cui oggi è attribuita. Nell’Ottocento i capimafia si chiamavano gabellotti ed erano il braccio armato della nobiltà feudale impiegato per la repressione delle rivendicazioni dei contadini. La lettera datata 3 agosto 1838 del procuratore generale di Trapani, Calà Ulloa e indirizzata al ministro della Difesa Parisi (ovviamente, non Arturo Parisi, anche se avrebbe ricoperto il medesimo incarico) reca testimonianza dei disordini sociali provocati dalla mafia: «Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi [del Trapanese] delle fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senza colore e scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo». Nel proseguio della lettera, si precisava che la cassa comune veniva riempita col furto del bestiame o coi sequestri di persona a fini estorsivi.
Il primo processo di mafia ebbe luogo tra il 1882 e il 1885 e si svolse contro il gruppo chiamato “La Fratellanza” o “Mano fraterna” di Agrigento. A questo periodo di formazione risalgono probabilmente le procedure iniziatiche e le formule di giuramento, che alcuni studiosi, come Monnier, Colacino, Lombroso e Alongi, paragonarono a certi aspetti della massoneria. Il nome di “fratelli” è ripreso nei fratuzzi di Bagheria degli anni Settanta e nei più tardi fratuzzi di Corleone. Si trattava di associazioni di terziari francescani, di cui sono stati documentati casi di estorsione, sequestro di persona, furto e banditismo. Tra i fratuzzi di Bagheria, inoltre, venne accolto Verro, uno dei capi dei Fasci siciliani, il movimento popolare che si oppose alla dominazione borbonica.
A fine Ottocento si strinsero i legami tra mafia e politica: da un lato si instaurò la prassi dello scambio di voti e favori, mentre dall’altro si consolidava un rapporto di dominio-protezione sul territorio. All’ inizio del XX secolo, la mafia assunse anche il controllo dell’emigrazione clandestina. La dittatura fascista inviò il prefetto Mori a Palermo per stroncare l’organizzazione, che tuttavia riuscì a sopravvivere. Non solo: approfittò dello sbarco degli americani e del movimento di Liberazione per infiltrarsi nelle nuove leve politiche e per radicarsi negli enti regionali. I mafiosi che andarono, o tornarono, negli Stati Uniti, mantennero i legami con l’Italia, ponendo le basi per un sistema internazionale la cui esistenza è accertata fino ad oggi.
I boss mafiosi si organizzarono in cupole e entrarono nei settori portati della ripresa economica italiana, soprattutto nell’edilizia. Si configurarono come dei veri e propri imprenditori urbani, estendendosi su tutto il territorio nazionale. Nacque, insomma, una mafia del “colletti bianchi”, industriale, la quale imparò presto a riciclare il denaro proveniente dal mercato della droga in investimenti apparentemente “puliti”. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, organizzò e portò a compimento una serie di stragi contro uomini politici, poliziotti e cittadini privati che si opponevano alla criminalità organizzata. Gli attacchi terroristici, peraltro, costituivano un aspetto di una guerra intestina tra i clan, dai cui emerse quello dei Corleonesi: occorreva un dispiegamento di forza per intimorire i nemici, per indurli alla paura. E a farne le spese furono lo Stato e i suoi onesti cittadini.
Tra le vittime di mafia, si ricordano Piersanti Mattarella nel 1980 e Pio La Torre. Quest’ultimo introdusse la legge Rognoni-La Torre che, riconoscendo il reato di associazione mafiosa, predispose la confisca dei beni ai mafiosi. Il generale Della Chiesa venne assassinato nel 1982 e il giudice Chinnici nel 1983; nel 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il finanziere Salvo e del deputato democristiano Lima. Nel 1986 è stato istituito un maxiprocesso, che coinvolse 400 persone: vennero arrestati i boss corleonesi Liggio, Riina e, nel 2006, Provenzano. Benché il colpo inferto allora alla mafia fosse stato molto duro, l’organizzazione riuscì a sopravvivere, adattandosi con velocità incredibile ai cambiamenti sociali e economici, non solo italiani.