Il carattere degli avversari

La garra charrua di Paolo Montero

La garra charrua di Paolo Montero
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La prima volta che incontrò la garra charrua era novembre. Ai giocatori aveva chiesto di mettersi lungo la linea della rimessa laterale, e quelli si erano piazzati proprio lì, in gruppo, a guardare i marmocchi della Primavera fare a undici contro zero; cioè senza un vero avversario da battere, soltanto corsa, movimento, disposti in buon ordine tattico per mostrare agli altri come andava fatto. Facile, insomma. Qualcuno allora doveva averlo pensato: "Questo è tutto suonato. Ti hanno appena dato una panchina di Serie A e già vuoi metterci in testa movimenti del genere?". Ma Cesare Prandelli non era pazzo. Antonio Percassi, il presidente dell'Atalanta, aveva detto basta: via Guidolin, ne ha perse sei e se continuiamo così il campionato rischia di saltare per aria. Allora al suo posto ci aveva messo Prandelli, che aveva 36 anni e aveva vinto un campionato con i ragazzi della Primavera. Fu quel giorno di novembre del '93, a Zingonia, che il futuro ct della Nazionale azzurra studiò da vicino la garra charrua, la faccia cattiva degli uruguaiani. Era quella di Paolo Montero.

Montero a Bergamo. A Bergamo Montero ci era arrivato un anno prima. Era cresciuto tirando calci nel barrio di Montevideo a un pallone fatto di stracci, ma Julio, il papà, che era stato anche lui un difensore del Nacional e della Nazionale ai Mondiali del '70, gli ripeteva senza stancarsi: "Guarda Pablo che non puoi vivere solo di calcio, bisogna che studi, è importante". E quello lo aveva ascoltato, allenando la memoria come i piedi, così che quando era arrivato in Italia e gli avevano messo addosso un insegnante, Paolo ci aveva impiegato tre mesi per capire la grammatica e il resto. L'Atalanta lo aveva preso dal Peñarol, una squadra fondata da certi italiani di Pinerolo, dove oggi si allena la Juventus. Percassi voleva mettere su un gruppo giudizioso ma spettacolare, che vincesse senza mai dimenticare quelli che avevano pagato il biglietto, e al Comunale c'erano entrati per uscire con il sorriso. Dall'Argentina era arrivato Leo Rodriguez, ventisei anni, il migliore giocatore della Copa America '91. E in attacco? Ganz, e un colombiano: Ivan René Valenciano, vent'anni anche lui, un altro Caniggia giuravano a Bergamo. Ma per la panchina Percassi aveva voluto Marcello Lippi. Un uomo saldo, con gli occhi di ghiaccio, con il vento sempre in faccia e con la riga dei capelli perennemente ordinata. Venne promesso uno sconto del dieci per cento sugli abbonamenti, se la stagione fosse andata in un certo modo, e alla fine l'Atalanta mancò di un soffio la qualificazione alla Coppa Uefa.

I primissimi tempi è Caniggia che lo porta al campo, gli fa da traduttore, lo aiuta. Poi gli danno un'Alfa 75 tutta rossa, e la prima volta che Montero torna da solo dagli allenamenti sbaglia strada. Si ritrova in un senso unico contromano. Ai vigili giura di essere un giocatore dell'Atalanta in prova, ma quelli non gli credono. Documenti, controlli. Un casino. Alla fine lo scortano in sede, poi all'hotel. Sarà che alle macchine preferisce i dischi dei Rolling Stones o piuttosto un bel film, magari di Dustin Hoffman. "Rain Man" l'ha visto già tre volte, ma la scena di quando Dustin fa vedere come si vince al casinò la rivedrebbe ancora e ancora. Ha un idolo, si chiama Hugo de León, ma qui da noi l'hanno visto solo a Italia '90. Nonostante ci sia venuto con mamma e papà, e con il fratello, Marcello, e la sorella Monserrat, Paolo ogni tanto è preso da un pugno di nostalgia allo stomaco. Gli manca l'Uruguay, gli mancano le facciate dei palazzi di Montevideo, la gente. "Cos'è per te la nostalgia?", gli hanno chiesto una volta. "Gli amici, la spiaggia di Punta Carretas e le mie nonne, che vivevano per cucinare, e lo facevano tutto il giorno". Però queste cose durano un attimo, il tempo di guardare una nuvola gonfia di bianco e chiudere gli occhi, poi volano via. Il papà fa l'ambulante a Milano, gira con un baracchino e vende panini e bibite. E' più un divertimento che una professione, un modo per occupare il tempo: niente di più. Anche perché la carriera di Paolo è già tracciata: basta metterci il giusto ardore, è fatta. Il suo allenatore al Peñarol, Luis Cesar Menotti, glielo aveva detto che se giocava così sarebbe diventato come Passarella. Da noi invece lo paragonano a Scirea e Baresi. Perché Paolo fa il libero e lo fa con una sicurezza che a molti sembra persino innaturale, per un ragazzo di diciotto anni. Non subito. Dopo un paio di uscite Lippi prova a spostarlo sulla fascia sinistra, lì è più facile prendere le misure: copri un lato, l'altro è il bordo del campo, uno con i suoi piedi non ha problemi. Invece Montero dice no, avrebbe preferito giocare in porta, piuttosto, "io se gioco lo faccio da centrale altrimenti vado in panchina". I compagni non ci credono. Paolo è arrivato da un mese, gioca nel campionato più bello del mondo, e cosa dice? Anche Lippi rimane interdetto: "Ci vuole tempo. Stai tranquillo, Paolo". "A Tranquillo gli hanno fregato la moglie, mister", e la questione della fascia sinistra si chiude lì.

La garra charrua, carattere uruguagio. Una delle caratteristiche degli uruguaiani è proprio questa, l'ostinazione. Non mollano mai, nemmeno quando l'impresa sembra impossibile. Ma il fatto è che nella storia dell'Uruguay si trovano una miriade di personaggi cocciuti, caparbi, che non si danno per vinti. Uno è José Gervasio Artigas. Nel 1813, dopo che l'Argentina firma un patto di amnistia, con un manipolo di uomini porta avanti la guerra di indipendenza dello stato sudamericano contro l'impero spagnolo, e infatti viene considerato il vero artefice dell'indipendenza dell'Uruguay. E' colpa di quei cromosomi testardi, se sono nati i grandi condottieri, i grandi campioni. Il 16 luglio del 1950, a Rio de Janeiro, la Nazionale di Lopez Fontana affronta il Brasile nella finale di Coppa del Mondo. I brasiliani giocano in casa, credono di aver già vinto. Ma un gol di Schiaffino e un altro di Ghiggia ribaltano il risultato e annullano quello di Friaca. Passerà alla storia come "Maracanazo", come qualcosa di inatteso, inaspettato. Jules Rimet, il presidente della federazione internazionale, dice: "Era tutto previsto, tranne il trionfo dell'Uruguay". In Uruguay crescono tutti cullati da quel mito. Anche Julio, il papà di Paolo. E quando Pablo nasce, Julio non smette mai di raccontarglielo, di dirgli che tutto si può fare, si può realizzare, che tutto è possibile. Così quando arriva in Italia, Paolo è pronto. Il primo anno a Bergamo vola via senza intoppi. L'anno dopo, però, che Lippi ha cambiato squadra ed è arrivato Francesco Guidolin, qualcosa si rompe. Gudolin è un allenatore d'avanguardia. Vuole giocare senza stopper e senza libero, costruire un altro calcio, troppo avveniristico per i tempi. Alla sesta sconfitta Percassi lo caccia. E' il caos. Guidolin accusa tre giocatori di averlo tradito: Bigliardi, Alemao e Montero. Montero? E' diciottenne: possibile sia già uno dei senatori dello spogliatoio? Anche anni più tardi, finché Montero è rimasto in Italia, quando i due si sono incontrati sui campi della Serie A, nessuno ha mai voluto chiarire l'argomento fino in fondo.

Il 3 novembre cacciano Guidolin. Al suo posto c'è Prandelli, ma non ha il patentino per allenare in Serie A. Così in panchina ci va Andrea Valdinoci, che di anni ne ha quarantotto, e i due formano la coppia incaricata di traghettare la squadra fino alla fine del campionato. Prandelli ha giocato nella Juventus, ha corso a fianco di Platini. Era il "dodicesimo", come si diceva allora. Cesare è sempre stato più grande dalla sua età. Da calciatore ragionava già come un tecnico, e adesso che gli è stata affidata una panchina così importante non vuole farsi sfuggire l'occasione. Ha vinto un Viareggio e un campionato Primavera. Ha un copione in testa, un'idea di gioco, una soluzione tattica. Il primo giorno da mister dell'Atalanta, il cielo è limpido sopra Zingonia. Fa mettere tutti al bordo del campo, e a quei marmocchi delle giovanili dice di mostrargli i movimenti, che domenica devono giocare loro contro il Piacenza. L'Atalanta ha perso sei partite su dieci, e nell'ultima, che è costata la testa a Guidolin, il Lecce ha vinto addirittura 5 a 1. Prandelli sa che mettere gli autori del golpe in campo è un rischio, che la gente contesterà quella scelta. Alemao, comunque, viene messo fuori rosa. Bigliardi finisce in tribuna. Ma la garra charrua di Montero gli dà fiducia. Montero vuole giocare, ha diciotto anni, non può essere un leader controrivoluzionario. Anni più tardi, diventato ct della Nazionale azzurra, prima di partire per il Mondiale in Brasile Prandelli confesserà: "Di sudamericani ne ho allenati tanti, argentini, cileni, brasiliani e uruguaiani (i miei preferiti, si può dire?), ed è vero quello che si dice, che sono passionali, hanno questa incredibile capacità di trasformarsi quando entrano in campo. Fino a cinque minuti prima magari sono tristi, soli, arrabbiati, pieni di problemi: spesso sono giovani, arrivano dall’altra parte del mondo, magari pensano a casa, o a un amore lontano. Hanno nostalgia. Poi gli dai una palla e dimenticano tutto, si perdono nella fantasia del gioco". Domenica 7 novembre 1993. Al Comunale sono in quattordicimila. In curva, poco dopo il fischio d'inizio, srotolano uno striscione piuttosto chiaro: "Vergogna, Guidolin non lo meriti". Montero è il più fischiato. Ogni volta che tocca il pallone dagli spalti viene giù la tempesta. Ma il giovane uruguaiano non sbaglia nulla. Esce dall'area di rigore a testa alta, anticipa Piovani, e chiunque gli passi tra i piedi. A un certo punto gli arriva un palla alta. Montero la stoppa, e fa un lancio di cinquanta metri. In tribuna si guardano, non è possibile, uno così non lo possiamo fischiare. E' in quel momento che Montero diventa un idolo dell'Atalanta. Dopo, solo applausi.

Montero alla Juve. Prima di passare alla Juventus e vincere meno di quanto avrebbe meritato (gli è mancata la Champions, sfiorata tre volte), Montero gioca più di cento partite con la maglia dell'Atalanta. Una retrocessione, una promozione, una finale di Coppa Italia persa contro la Fiorentina. Bergamo gli ha voluto bene. Forse proprio perché Montero non ha mai sconfessato se stesso e il suo essere uruguaiano. L'ostinazione, sì, la grinta che spesso gli è costata un'espulsione, altre volte un'accusa da codice penale. E le notti brave, le donne, il gomito alzato più del dovuto, qualche volta. E quell'irriverenza tipicamente sudamericana. Come quella volta che Carlo Perrone, suo compagno di stanza, viene svegliato nel cuore della notte perché alla moglie si sono rotte le acque. Naturalmente Perrone corre ad assistere al parto, ma poi torna, si fa una doccia, si rimette a dormire. Montero non si accorge di nulla. E insomma, la mattina dopo l'ultimo a saperlo è proprio Paolo, che si è svegliato per ultimo. O l'ossessione per il tunnel. Lo cercava in allenamento, continuamente, e quando gli riusciva godeva più che per un gol segnato. Una volta, in Svizzera, durante un'amichevole, gliene riuscì uno in area di rigore, a un metro dalla propria porta. L'ha raccontato per anni, dicono. Ha giocato un Mondiale, quello in Corea e Giappone del 2002, ma l'Uruguay non ha superato nemmeno il girone. Ha lasciato il calcio a 35 anni, con la maglia del Peñarol addosso, sedendosi sul bordo della doccia e con una sigaretta appesa alle labbra: "La decisione è presa. Lascio il calcio", ha detto a muso duro a chi voleva persuaderlo. Perché è uno ostinato, e passi. E perché è un uruguaiano che si è forgiato a Bergamo.

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