Il racconto di quei giorni

Casa di riposo di Seriate: «Piangevamo di nascosto per poter sorridere agli anziani»

Il direttore della struttura: «Avevamo tutti un macigno sullo stomaco. Alle 6.30 iniziava una guerra, per due mesi, senza sabati né domeniche». C’è chi ha dato l’ultima benedizione al posto del prete. L’infermiera arrivata da Catanzaro il 6 marzo: «Fortunata, qui ho trovato una famiglia»

Casa di riposo di Seriate: «Piangevamo di nascosto per poter sorridere agli anziani»
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di Federico Rota

«Abbiamo dovuto affrontare una situazione di fronte alla quale nessuno al mondo poteva essere preparato. Chi non ha lavorato in quel periodo all'interno degli ospedali e delle case di riposo non può immaginare il carico emotivo che abbiamo dovuto sopportare». Sono passati cinque mesi dalla scoperta del primo caso di Coronavirus all'ospedale di Alzano Lombardo, il 23 febbraio scorso, ma la commozione sui volti del personale della Rsa Giovanni Paolo I nel ricordare i mesi dell’epidemia è ancora ben visibile.

«Il tempo si è cristallizzato: i ricordi che abbiamo legati alla normalità di tutti i giorni si sono fermati a San Valentino - racconta Angelo Carlotti, operatore socio sanitario della casa di riposo -. Abbiamo svolto compiti che mai nella vita avremmo pensato di dover svolgere. In alcuni casi ci siamo anche sostituiti ai preti, dando agli anziani una benedizione e accompagnandoli durante gli attimi conclusivi della loro vita. Questo aspetto è stato particolarmente apprezzato anche dai familiari. Alcune persone hanno perso uno o entrambi i genitori a causa dell’infezione, ma ci hanno ringraziato per la professionalità che abbiamo dimostrato in quei momenti».

«A volte mi chiedo se quanto abbiamo vissuto sia reale - commenta Alessandra Ghezzi, Oss -. È stata tutta una catena casa-lavoro. Siamo stati forti; ricordo che piangevamo nascosti in un angolo così da poter essere sempre sorridenti con gli anziani ricoverati e dar loro coraggio».

Le Rsa sono strutture che hanno pagato uno dei tributi più alti dell’emergenza sanitaria, nonostante i protocolli adottati per tempo. Tuttavia, «non ci siamo mai rassegnati al senso di impotenza che poteva essere generato dal lockdown e non abbiamo mai fatto mancare nulla agli ospiti - sottolinea il direttore della struttura Tiberio Foiadelli -. Siamo stati fortunati perché avevamo a disposizione una scorta di mascherine chirurgiche e siamo riusciti a reperirne ulteriori sul mercato».

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«Non nascondo di aver vissuto momenti di debolezza, ognuno di noi aveva un macigno sullo stomaco e sapevamo di dover difendere persone deboli da un nemico sconosciuto. Questa determinazione ci ha accompagnato per oltre due mesi - aggiunge Foiadelli -. Non esistevano sabati e domeniche, ognuno di noi entrava in servizio alle 6.30 del mattino sapendo che sarebbe stata una guerra, ma ci guardavamo negli occhi a vicenda come per dirci “ok ci siamo”. Personalmente temevo di ammalarmi, non perché avrei rischiato di essere ricoverato in ospedale, ma perché avrei dovuto abbandonare gli ospiti e i colleghi».

Dai racconti di quei momenti drammatici emergono anche storie dal lieto fine, come quella di Maria Vitali che il 25 marzo ha festeggiato il suo 100esimo compleanno. Oppure quella di Alexandra Citriniti, giovane infermiera neolaureata, arrivata a Bergamo da Catanzaro il 6 marzo. «Può sembrare strano, ma mi ritengo una persona molto fortunata - spiega Alexandra -. Qui ho trovato una casa, un lavoro ma, soprattutto, una vera e propria famiglia. Credo che non avrei potuto incontrare persone migliori in nessun altro posto o circostanza. Inoltre, non dovevo temere li rischio di poter contagiare i miei familiari, un privilegio che i miei colleghi non avevano».

L’articolo completo e altre notizie su Seriate a pagina 33 del PrimaBergamo in edicola fino al 30 luglio, oppure sull'edizione digitale QUI.

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