Storia (e parole) di Vito Callioni, il terzino bergamasco che faceva gli assist a Paolo Rossi
Nato a Sforzatica e cresciuto nell’Atalanta, è stato esterno sinistro del mitico Vicenza che arrivò secondo. «Pablito era l’unico fenomeno della squadra ma non l’ha mai fatto pesare a nessuno. Un ragazzo umile con un innato fiuto per il gol»
di Ettore Ongis
Nel campionato ’77-’78 il Lanerossi Vicenza ha scritto una pagina di storia del calcio italiano arrivando secondo. Saliva dalla B e il suo è stato il miglior risultato di sempre di una neopromossa. L’allenatore era Giovan Battista Fabbri e il centravanti Paolo Rossi. Terzino sinistro di quella squadra era un bergamasco, Vito Callioni, di Guzzanica (Dalmine), cresciuto nell’Atalanta. Oggi Callioni ha 72 anni e abita a Castel Rozzone. Si sorprende che qualcuno si sia ricordato di lui e parla volentieri di quell’impresa e del suo compagno di squadra Pablito Rossi.
Vito Callioni negli anni del Vicenza
Paolo Rossi al Vicenza
Vito Callioni oggi
Da dove cominciamo?
«Dal dire che la mia non è stata una carriera eccezionale, l’ho presa per i capelli».
In che senso?
«Ho fatto le giovanili nell’Atalanta, dai pulcini alla prima squadra, il mio ultimo anno a Bergamo facevo parte della rosa con Savoldi, Marchetti… Poi col militare mi hanno mandato allo Spezia in serie C. Due anni in prestito, prima di essere ceduto. A quei tempi ero un attaccante, avevo un gran tiro sia di destro che di sinistro».
Tre anni a Spezia, dunque.
«Dove giocavo poco. C’era stata una trasferta in Sardegna - allora si disputavano sempre due partite sull’isola, una contro l’Olbia e l’altra contro la Torres -, e non venni neppure convocato. Allora andai dall’allenatore e serenamente gli dissi che visto l’andazzo avrei chiuso con il calcio. “Ho 22 anni, sono lontano da casa, ho avuto diversi allenatori ma nessuno mi ha fatto giocare spesso. Cercherò un altro lavoro e giocherò per divertirmi”. Il mister mi sconsigliò: “Resta Vito, vedo che ti impegni – io ho sempre dato il 101 per cento negli allenamenti -, vedrai che un giorno o l’altro...”. Insomma, mi ha convinto. Poco dopo in panchina arriva Corelli, ex giocatore del Napoli e per caso si infortunano entrambi i terzini. Corelli mi chiama: “Ti andrebbe di provare a giocare in difesa?”. “Pure in porta – gli ho risposto -, a me basta giocare”. La domenica successiva mi ha schierato terzino sinistro. Da quel giorno è cambiato tutto».
Cambiato cosa?
«Avevo trovato il mio posto. Le mie doti erano la grande corsa e il tiro, non avevo dribbling, non avrei potuto giocare a centrocampo. Ero un esterno come Facchetti, per intenderci. Uno-due, uno-due, cross dal fondo, oppure accentrarsi e tirare, di destro o di sinistro. Cominciai a fare gol, sei o sette all’anno».
E inizia la carriera vera.
«L’anno dopo sono stato ceduto in Serie B al Como e l’anno successivo in Seria A al Torino, allora allenato da Edmondo Fabbri, quello della nazionale. Giocavo con Claudio Sala, Pulici e Graziani. Al mio posto al Como presero Tardelli. Poi dal Torino sono passato al Vicenza in Serie B, con allenatore Scopigno: c’erano Sormani, Longoni, Ferrante, Vitali, ma è stata una stagione disastrosa. Mi sono fatto anche male. È seguito un anno in prestito alla Sampdoria in A, allora guidata da Bersellini: siamo retrocessi, ma tornai sulla cresta dell’onda. E rientrai a Vicenza, appena promosso in A. Allenatore era l’altro Fabbri, Giovan Battista, detto G. B. I due Fabbri avevano una visione opposta del calcio: per Edmondo il terzino era uno che non doveva passare la metà campo, per G. B. doveva andare a fare gol. Me lo ripeteva in continuazione: “Tu devi andare a fare gol!”».
Era il mitico Vicenza di Paolo Rossi, che quell’anno segnò 24 reti, per l’epoca un record perché tante partite finivano zero a zero. Ricorda la formazione?
«In porta c’era Ernesto Galli, che è morto quindici giorni prima di Paolo, poi Lelj, io, Guidetti, Carrera, Prestanti, Cerilli (un mancino che veniva dall’Inter e che il mister già allora faceva giocare a destra), Salvi, Rossi, Faloppa e Filippi».
Secondi in campionato da neopromossi, un’impresa incredibile.
«Non abbiamo iniziato bene: nelle prime cinque giornate abbiamo raccolto appena tre punti. La svolta è arriva alla sesta giornata, 4-2 in trasferta proprio contro l’Atalanta. Giocavamo a uno-due tocchi, ci paragonavano all’Ajax, un calcio totale non ancora visto in Italia. G. B. Fabbri era avanti anni luce... In campo ci divertivamo e - questo lo racconto sempre – sentivamo gli avversari gridare: “Cosa succede? Chi devo tenere io?”. Erano abituati alla marcatura a uomo e noi ci scambiavamo continuamente, li facevamo impazzire, a m'tiràa macc töcc. Poi certo, davanti alla porta avevamo uno che la buttava dentro».
Paolo Rossi, che di lì a qualche anno sarebbe diventato il “Pablito” della Nazionale.
«In attacco c’era solo lui e noi crossavamo senza alzare la palla, perché non era alto. Mettevamo palloni rasoterra e tesi sul primo palo, e lui arrivava. Non aveva un gran tiro, non saltava bene di testa, non era potente, ma faceva gol grazie alla rapidità e a un istinto naturale, innato: arrivava sempre in anticipo. Un po’ come Pippo Inzaghi, che poi ho allenato alle giovanili nel Piacenza. Magari non toccavano palla per tutta la partita, ma alla prima occasione era gol sicuro: nello spazio davanti alla porta non ce n’era per nessuno».
Che squadra eravate?
«Una normale formazione di provincia, semplice come l’Atalanta. A quell’epoca c’erano allenatori che già basavano tutto sui test e sul training, Fabbri invece era essenziale: giretti di campo, quattro movimenti per il riscaldamento e subito partitina. Due ore di partita in spazi stretti, come su un campo a sette, giocata a duecento all’ora. Non c’è miglior allenamento. Ogni tanto ci fermava, spiegava come fare certi movimenti, e via di nuovo. Lui è stato la nostra fortuna e noi la sua perché abbiamo sempre fatto quello che diceva».