La sfida per il 2021 dell'assessore Messina: «Dobbiamo andare noi da chi ha bisogno»
La responsabile delle Politiche sociali del Comune di Bergamo: «La pandemia ha cambiato tanto. Stiamo lavorando meno negli uffici e più nelle strade. Il grande problema sono le nuove vulnerabilità»
di Andrea Rossetti
Il sindaco Giorgio Gori, nella conferenza di fine anno, aveva elencato tre priorità per il 2021 della sua Amministrazione: vaccini, economia e lotta alla povertà. La seconda e la terza sono, ovviamente, strettamente legate e mostrano come la pandemia ancora in corso abbia profondamente mutato l’ottica di governo della città. Altri temi, solitamente al centro del dibattito politico cittadino, sono comprensibilmente passati in secondo piano, utili giusto per alimentare polemiche strumentali e qualche (legittima) interrogazione delle opposizioni.
Sebbene inscindibilmente legati tra loro, economia e lotta alla povertà hanno però bisogno di approcci assai diversi. Sul primo tema, in questi anni Gori ha dimostrato di saper lavorare bene anche e soprattutto grazie alle sue conoscenze e al suo passato da imprenditore. Oltre all’importante mole di investimenti compiuti dal Comune, si sono infatti aggiunti quelli dei privati che, stando alle previsioni per il 2021, dovrebbero portare gli investimenti complessivi di Palazzo Frizzoni a quota settanta milioni di euro. Decisamente più difficile, invece, affrontare il tema della lotta alla povertà. Innanzitutto, perché l’emergenza in corso ha portato alla luce nuove vulnerabilità impreviste e inattese, e poi perché è stato necessario un rapido cambio organizzativo della macchina comunale. «Ci siamo visti costretti a rimodulare tutto in poco tempo», spiega Marcella Messina, assessore alle Politiche sociali del Comune di Bergamo, apice “politico” di un sistema che, dalla primavera scorsa, lavora alacremente ma spesso lontano dai riflettori.
È come se la vostra attività fosse passata dagli uffici alle strade.
«Esattamente. Il tema del decentramento, in realtà, faceva già parte del nostro programma. Ma lo abbiamo enormemente accelerato. Abbiamo creato delle vere e proprie unità di emergenza, cambiando anche il concetto di servizi sociali».
In che senso?
«In sostanza, i servizi sociali sono sempre stati organizzati con un sistema a canne d’organo: c’è chi si occupa dei minori, chi delle famiglie, chi di quel problema, chi di quell’altro. L’emergenza che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo, seppur fortunatamente in maniera meno intensa rispetto alla primavera scorsa, ci ha costretti invece a essere rapidi e a integrare le risposte ai bisogni. Tutti dovevano occuparsi di tutto».
Un’attività trasversale.
«Esattamente. Abbiamo anche ricevuto tantissimi aiuti dai privati, ad esempio, e questi non erano rivolti a qualche categoria in particolare: serviva un coordinamento comune. In questo è stato fondamentale anche il supporto dei cittadini».
Con l’attività di volontariato?
«Quello è un esempio virtuoso. Ma non l’unico. Stiamo costruendo, al fianco di una rete di aiuto formale, una rete di aiuto informale sempre più forte, radicata sul territorio, presente nei quartieri».
L’obiettivo è, quindi, andare a trovare le persone che hanno bisogno di aiuto e non aspettare più che siano loro a venire da voi?
«È così. Anche perché il coronavirus ha purtroppo creato un mondo sommerso di persone che hanno bisogno di aiuto ma che, per vari motivi, non lo chiedono. Magari non conoscono i servizi, magari si vergognano, magari pensano che non possiamo aiutarli. La creazione di canali di aiuto e di contatto nuovi, inediti e informali è fondamentale. L’idea è quella del vicino di casa che ci aiuta in concreto ma non più in solitaria».
Quanto è aumentata la povertà, a Bergamo?
«Farei una distinzione: un conto è la povertà, un’altra la vulnerabilità. Il coronavirus, da un lato, ha peggiorato molto le condizioni di chi era povero; dall’altro ha creato nuove vulnerabilità. Sto parlando di persone che, redditi alla mano, non possono essere definite povere, ma hanno visto drammaticamente ridursi le entrate. Persone che lavorano nel turismo, nello spettacolo, nella ristorazione. Tra loro c’è chi tiene botta e resiste, altri che invece non possono più farlo e si vedono costretti a reinventarsi, ripartire. Ma non è facile».
E per queste persone cosa pensate di fare?
«Innanzitutto bisogna intercettarle, e qui torniamo alla presenza sul territorio. Poi è necessario sviluppare un sistema di aiuto che non sia solamente legato ad aiuti momentanei, ma strutturati nel tempo. In tal senso, è ancora più importante il supporto dei privati».