Alà, cór!

Beppe, il mitico edicolante della funicolare, lotta per rimettersi in piedi

Dal suo luogo di vedetta, in Città Alta, è diventato una figura di riferimento per i runner. Da qualche tempo non c’è e i corridori sono preoccupati: si è sentito male, l’hanno portato in ospedale

Beppe, il mitico edicolante della funicolare, lotta per rimettersi in piedi
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Di Marco Oldrati

Sono la vera e propria mania del corridore, le ancore di salvezza della fatica e della grande comunità umana che fa della corsa uno sport unico. Ognuno ha le proprie, i propri oggetti o personaggi che fanno da snodo geografico delle uscite, lunghe o brevi che siano.

Ci sono quelli che si danno appuntamento sempre allo stesso bar, che si fermano sempre a bere il caffè nello stesso posto, che bevono alla stessa fontanella, che fanno stretching nello stesso spiazzo. Ma questi sono luoghi, spesso comodi e utili… poi ci sono i riferimenti che non hanno niente di funzionale, ma fanno semplicemente parte del panorama: un albero, la facciata di un palazzo, una svolta su una salita, un cane che abbaia, il cinguettio degli uccelli “disturbati” dal tuo passaggio.

E infine ci sono le persone, quelle più importanti, quelle che saluti perché a un certo punto – a furia di passare per la stessa via – tu sei una faccia nota e loro lo sono per te. E alcuni fanno di più, ti chiedono come va, come stai e tu non fai altrettanto per semplice cortesia, ma perché è bello pensare che il semplice fatto di incrociare lo sguardo sia l’occasione per iniziare una chiacchierata, in un’epoca in cui le chiacchierate iniziano sempre più spesso solo sui social network.

Con Beppe è andata proprio così, quasi per caso, ma forse, anzi sicuramente proprio per caso è diventata un’amicizia larga, di gruppo. E quest’amicizia è così forte che… andiamo con calma, raccontiamo un po’ di chi stiamo parlando.
Beppe è una figura quasi mitica, per me: è una specie di soldato giapponese rimasto a presidiare un’isola del Pacifico, è l’edicolante di Piazza Mercato delle Scarpe. Il suo luogo di vedetta sono pochi metri quadri a sinistra dell’ingresso dell’atrio della stazione della funicolare, un capolavoro di essenzialità bergamasca che meriterebbe di essere valorizzato di più anche solo perché nell’epoca del digitale ha le sue porte d’accesso ancora in legno e sullo sfondo il panorama di Bergamo Bassa è ripartito come in una vetrata di una chiesa dalla porta in ferro del bar che sovrasta la funicolare stessa, il Funny Bar come lo chiamavamo impropriamente ai tempi in cui dietro il bancone c’era l’ottimo Max.

Beppe è lì, sette giorni su sette, dalla mattina quando arrivano i giornali a quando la gente smette di disturbarlo nel pomeriggio, sornione, ironico, sempre più divertito a chiacchierare con le ragazze piuttosto che con i corridori maschi, ma sempre gentile e soprattutto attento, a capire chi c’è e chi manca, a dirci che siamo in ritardo rispetto agli standard o in anticipo, oppure a raccontarci di chi è passato ieri o un’ora prima. E noi sappiamo che da lui ci si ferma, anzi, no! Ultimamente non ci si ferma, ci s’infila correndo nello spazio fino alla vetrata, si fa il giro della panchina e si esce battendo il cinque proprio a lui, sull’attenti davanti all’edicola. Un rito che per metà ci siamo inventati noi, per l’altra metà lui, ma che ci diverte proprio tutti, come dei bambini adulti che intercalano la corsa con un omaggio alla stupidera.

Ma Beppe da qualche tempo non c’è e domenica guardiamo l’edicola chiusa un po’ preoccupati. Lì vicino una persona è uscita dal portoncino per sistemare qualcosa, ci vede e ci chiede se stiamo cercandolo. E ci racconta che Beppe si è sentito male, proprio in edicola, sono venuti immediatamente e l’hanno portato in ospedale e da una quindicina di giorni è lì, a lottare per rimettersi in piedi, in attesa di una cura che lo riporti verso Città Alta a salutarci e a sorridere con noi.

E un’ondata di messaggi parte, composta, silenziosa nella preghiera che ci unisce, tutti, senza distinzione di intensità e di frequentazione del luogo, come se passare di lì e non trovarlo più sia una ferita troppo grande anche solo da immaginare. Perché lo rivogliamo lì con noi, a salutarci con il buio, a chiedere il nome a quelli “nuovi”, a domandarci che giro abbiamo fatto e se siamo stanchi.

Lo rivogliamo lì, perché a tutti noi, che corriamo o no, serve pensare che questo periodo tremendo non ci porti via anche i segni forti nel paesaggio, quelle presenze, familiari anche se non necessariamente parentali, che ci fanno sentire di abitare ancora in un mondo che ha una sua continuità. Che non ha rotto il flusso del tempo come un pendolo che si ferma e non riparte.

Forza, Beppe. Torna!

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