Un vero maestro si capisce da come si allaccia le scarpe
Due pezzi interessanti di questi giorni su Papa Francesco. Il primo è «Il decalogo di sobrietà di Papa Francesco» su La Stampa:
1 - Francesco non abita al palazzo apostolico ma in una stanza della foresteria vaticana Santa Marta;
2 - quando viaggia si porta da solo la borsa in aereo;
3 - nelle viste ufficiali usa solo macchine utilitarie;
4 - ha fatto installare le docce per i senza tetto a Piazza San Pietro;
5 - calza le comuni scarpe nere di quando era arcivescovo di Buenos Aires invece delle scarpe rosse utilizzate dal suo predecessore;
6 - al termine della messa a Santa Marta si mette a pregare all’ultimo banco della cappella, dietro a tutti i fedeli;
7 - come gesto di cortesia si ferma a bere il mathe che i fedeli gli offrono in piazza durante le udienze generali;
8 - gira a piedi all’interno del Vaticano e si porta da solo sotto braccio la mitria prima delle celebrazioni come quelle con i confratelli gesuiti;
9 - si presenta semplicemente come vescovo di Roma e ha voluto che gli altri titoli di Papa non figurino nella prima pagina dell’Annuario Pontificio;
10 - si è inginocchiato e ha chiesto al Patriarca di Gerusalemme di benedirlo come, appena eletto, si è inginocchiato davanti ai fedeli invocando dalla folla la benedizione divina.
Il secondo è un brano da «Tutte le fatiche del Papa che non si risparmia» Vatican Insider.
Quando è in Vaticano, il Papa si sveglia alle 4,45 e si veste da solo. Per prima cosa legge i «cifrati» provenienti dalle nunziature di tutto il mondo, quindi per oltre un’ora prega e medita le Scritture del giorno preparando l’omelia di Santa Marta. Quindi, sempre da solo, alle 7 scende per celebrare la messa. Dopo la funzione e il saluto ad ognuno dei presenti, fa colazione. Quindi inizia la mattinata di lavoro con le udienze gli incontri. Alle 13 c’è il pranzo, seguito da mezz’ora di siesta. Nel pomeriggio, dopo un tempo di preghiera, riprendono gli incontri, ci sono quindi il disbrigo della corrispondenza e le telefonate. A fine giornata, prima della cena delle 20, c’è solitamente un’ora di adorazione nella cappella.
Nei “Racconti dei Chassidim” di Martin Buber si trova questo racconto intitolato «Insegnare ed essere insegnamento»:
Rabbi Löb, figlio di Sara, lo zaddik segreto che, seguendo il corso delle acque, vagava sulla terra per redimere le anime dei viventi e dei morti, raccontava: «Se io andai dal Magghid non fu per ascoltare insegnamenti da lui, ma solo per vedere come egli si slaccia le scarpe di feltro e come se le allaccia».
Martin Buber, filosofo, storico, narratore è un grandissimo studioso della traduzione ebraica hassidica (Chassidica). Gli Ebrei contenti, si potrebbero chiamare. Zaddik (scritto anche Zadiq o Sadiq) sono I Giusti, le anime che aiutano il mondo a diventare migliore. Magghid - di per sé un predicatore itinerante - indica qui Ba'al Shem Tov (Podolia, 1698 – Medžybiž, 1760), il rabbino e mistico polacco nonché guaritore itinerante che fondò il movimento chassidico moderno. Il suo nome significa Maestro del nome di Dio.
Il brano di Buber significa dunque che l’insegnamento delle cose che contano non passa dalle grandi sintesi teologiche ma attraverso il modo con cui ci si atteggia o ci si comporta nella quotidianità più umile. Papa Francesco - nei due brani riportati - è presentato come un Magghid. Anzi: il Magghid. Ha detto Francesco a un gruppo di seminaristi: «Alcune volte non si può fare tutto, perché io mi lascio portare per (da. “per” è prestito dallo spagnolo “por”) esigenze non prudenti: troppo lavoro, o credere che se io non faccio questo oggi, non lo faccio domani… Così, cade l’adorazione, cade la siesta…».
Un altro racconto di Buber:
Una volta degli scolari del Ba’al Shem sentirono dire che un tale era davvero un grande predicatore. Prima di andarlo a sentire chiesero al loro maestro come fare a capire se fosse un vero zaddik o solo uno che vendeva fumo. «Pregatelo di dirvi,» rispose il Ba’al Shem, «come fare per non essere assaliti da pensieri strani quando studiate o pregate. Se vi dà un consiglio, allora è uno che non vale niente. Perché il compito dell’uomo, fino a un momento prima di morire, consiste appunto nell’affrontare la lotta tra la tentazione del mondo e la coscienza di quello che si dovrebbe fare, in modo da portare anche le tentazioni di fronte al Signore».
«La cosa giusta - diceva ancora il papa ai seminaristi di cui sopra - è finire la giornata stanchi. Non avere bisogno di prendere le pastiglie: finire stanco. Ma con una buona stanchezza, non con una stanchezza imprudente, perché quello fa male alla salute e alla lunga si paga caro. Questo è l’ideale, ma non sempre lo faccio, perché anche io sono peccatore, e non sempre sono tanto ordinato».
A quando l’incontro del nostro caro zaddik coi discendenti del Ba’al Shem Tov?