Il ricordo della moglie dell'infermiere del 118 travolto da una valanga: «Eri il migliore, un esempio»
Ivana Paris, infermiera all'ospedale Papa Giovanni XXIII, ha voluto ricordare il marito Claudio Rossi, morto il 13 gennaio scorso
«Se c'era un Infermiere con la I maiuscola, quello eri tu. Eri il migliore Claudio Rossi… Lo dicevo sempre, a tutti. E non esageravo, visto le innumerevoli testimonianze che tutti i giorni ricevo». Così Ivana Paris, in occasione della giornata internazionale dedicata agli infermieri, ha voluto ricordare il marito Claudio Rossi, infermiere del 118 conosciuto da tutti a Bergamo. Claudio è morto il 13 gennaio, travolto da una valanga staccatasi tra i monti della Valle Imagna, tra i comuni di Fuipiano e Brumano.
«Ti ho conosciuto in ospedale – si legge nel messaggio pubblicato da Ivana, anche lei infermiera al Papa Giovanni -, nella Rianimazione dei Riuniti. Eri il mio tutor e io la tua prima studente. Mi hai colpito subito perché facevi e sapevi cose complicate come se fossero le più semplici del mondo, sempre con serietà e tranquillità e sempre col tuo sorriso e coi tuoi modi gentili ed educati. Con la tua semplicità, competenza e passione mi hai insegnato tanto, fin d'allora. Ti ho spesso chiesto consigli e spiegazioni e tu sapevi sempre rispondere in modo impeccabile, meglio di un libro o di un professore».
Claudio Rossi era molto apprezzato per la sua competenza, professionalità e capacità sul lavoro, impegnato anche nella lotta al Covid sulle ambulanze o l’elisoccorso.
«Hai fatto tanto per moltissime persone, prima in reparto e poi in centrale e sui mezzi. Hai sempre avuto un qualcosa in più degli altri ma non ti vantavi mai e, in silenzio, sei arrivato dove tanti vorrebbero e non riusciranno mai. Eri sempre pronto ad imparare e a migliorarti. Non ti arrabbiavi, non ti lamentavi, non ti stancavi mai. Se c'era da prendere un malato in più toccava sempre a te. Eri un leader, capo turno in terapia intensiva e referente infermieristico dell'elicottero. Spero che tu possa essere un esempio, per me lo sei sempre stato e lo sarai sempre».
«Durante questa pandemia siamo stati definiti eroi, per poi essere dimenticati un'altra volta – aggiunge Ivana -. La nostra è una professione tutt'altro che facile. Hai a che fare con la sofferenza, con persone, spesso stanche e arrabbiate, che a volte trascorrono mesi in ospedale, tra tanto dolore, e in questo periodo, anche solitudine. È un lavoro pesante, fisicamente, mentalmente ed emotivamente, troppo spesso sottovalutato e bistrattato. Solo chi c'è dentro capisce cosa vuol dire fare questo lavoro. Per i più siamo fannulloni, statali. Una professione che, nonostante tutto, sceglierei mille altre volte perché le soddisfazioni nel vedere star meglio, dopo tanto tempo, fatica e sofferenza, un paziente superano le frustrazioni e le difficoltà quotidiane».