Sergio Cotti, il giornalista "figlio della foca" che ancora ama Adriano Celentano
Negli Anni '90 fondò il primo fan club. L'ultimo volume si intitola "Le robe di Adriano": «È il catalogo di una mostra che ancora non c'è»
di Andrea Rossetti
Di lui, Giorgio Bocca disse: «È un cretino di talento». Quel che è certo, è che Adriano Celentano è un pezzo di storia (neppure troppo piccola) dell’Italia. Cantante, attore, presentatore, ribelle, attivista: un cubo di Rubik di canzoni, monologhi e citazioni cult (chi, dal 2005, non ha mai diviso il mondo tra ciò che è lento e ciò che è rock?) che attraversano il Paese e le nostre vite da ormai 65 anni. Ed è proprio per questa ricorrenza che Sergio Cotti, giornalista bergamasco e tra i più grandi fan e conoscitori di Celentano, ha scritto Le robe di Adriano (Bolis Edizioni), suo terzo libro dedicato al Molleggiato dopo 1957-2007. Cinquant’anni da ribelle (2007, Editori Riuniti) e Adriano e Celentano - Un po’ artista un po’ uomo (2017, Arcana). La prima presentazione della nuova opera è fissata per il 25 maggio in una cornice niente male: il Senato di Roma.
Per Cotti, Celentano non è soltanto un idolo. È il fil rouge di una vita vissuta tra Bergamo e la Francia; è la presa di coscienza della forza prorompente della comunicazione («Mi innamorai di lui nel 1987, quando avevo 12 anni, ascoltandolo a Fantastico. Le canzoni mi piacevano, ma fu il Celentano televisivo a conquistarmi»); è la molla che lo convinse a lanciarsi in battaglie ambientaliste - e non solo - come fondatore e presidente del mitico fan club “I figli della foca”, chiuso nel 2002; è ciò che gli ha permesso di realizzare il desiderio di diventare giornalista («Al Giornale di Bergamo mi chiesero di collaborare dopo aver letto le fanzine che realizzavo per il fan club»).
Per tutti questi motivi, Le robe di Adriano non è semplicemente un libro su Celentano, ma un vero e proprio viaggio tra foto inedite, memorabilia, canzoni e storie che restituiscono un’immagine affettuosa ma oggettiva del Molleggiato. «L’idea è sempre stata quella di organizzare una mostra importante su di lui - spiega Cotti -. Una cosa mai fatta. Il libro nasce da lì: in realtà, è il catalogo di una mostra che ancora non c’è».
È il suo terzo libro su Celentano. Ma li ha scritti tutti finita l’esperienza del fan club “I figli della foca”...
«Sì, ma non c’è una vera e propria motivazione. Ho colto le occasioni quando si sono presentate».
E per nessuno di questi libri ha intervistato Celentano?
«No. Dalla fine dell’esperienza de “I figli della foca” non ho più avuto modo di sentirlo».
Come mai?
«Diciamo che quella bellissima esperienza, così come nacque soprattutto per merito di Adriano, si chiuse anche per volontà di Adriano. Un fan club come quello, fatto anche di tante iniziative, senza un supporto quanto meno “affettivo”, aveva poco senso di esistere».
Ci racconta un po’ meglio “I figli della foca”? A Bergamo, negli anni Novanta, vi siete fatti conoscere bene.
«Il fan club nacque dopo il famoso monologo di Celentano, molto discusso, contro la caccia a Fantastico. Quando disse di scrivere al Capo dello Stato e dirgli: “Noi siamo i figli della foca, non vogliamo che nostra madre pianga”. Inizialmente eravamo una ventina, molti miei amici iscritti più per farmi un favore che per altro. Intanto, io facevo di tutto per riuscire a incontrare Celentano. Abitava già a Galbiate, sapevo che ogni domenica andava a messa e così obbligai la mia famiglia a portarmi sempre lì, nella speranza di incontrarlo. Ma lui non c’era mai. Poi, un giorno, dopo la messa, faccio conoscenza con una panettiera che mi rivela di essere colei che portava quotidianamente il pane a casa di Celentano. Colsi la palla al balzo e le lasciai un volantino del fan club. Il martedì successivo, mentre ero a casa, alle 21.45 suonò il telefono».
Non mi dica che era Celentano!
«Eh, sì. Parlammo un po’ e gli chiesi di poterlo incontrare. La domenica successiva andai da lui, ci presentammo di persona e iniziò un rapporto. Ciclicamente ci sentivamo per fare due chiacchiere e parlare un po’ di varie cose, di progetti».
Il suo idolo divenne un amico.
«Amico forse è troppo. Però ogni dieci o quindici giorni ci sentivamo. A lui piaceva molto il fatto che “I figli della foca” non fosse solo un fan club, ma anche un gruppo impegnato sul territorio. Raccoglievamo le siringhe in piazza Dante, pulivamo le scalette. Rendevamo concreto quell’impegno civile che Celentano spesso chiedeva ai giovani. E rompevamo le palle alle autorità. Eravamo un po’ fan club e un po’ movimento ecologista».
I contatti con lui furono sempre e solo telefonici?
«No. Nel 1994 mi fece avere un pass per seguirlo in tutta la sua tournée estiva. Mi ero appena diplomato, non avevo impegni e lo seguii per tutta l’estate. Viaggiavo con lui, avevo accesso ai concerti ma anche alle prove. Spesso mangiavamo insieme».
Un sogno.
«Sì, anche perché grazie a quel rapporto, l’anno successivo, riuscii a organizzare una grande serata a Bergamo con lui ospite. E nel 1996, all’interno del disco Arrivano gli uomini, citò il fan club con tanto di indirizzo - che era quello dei miei genitori -: noi de “I figli della foca” facemmo il botto, nel senso che iniziarono ad arrivare centinaia e centinaia di lettere. Da sessanta che eravamo, gli iscritti salirono a seicento. Iniziammo a realizzare la fanzine, aprimmo varie sezioni in giro per l’Italia e ognuna si occupava di qualcosa: a Bergamo pulivamo le scalette, a Roma davamo da mangiare ai senza tetto, a Napoli ci occupavamo dei cani abbandonati... E denunciavamo ciò che non andava, che non ci piaceva».
Una sorta di Movimento 5 Stelle ante litteram.
«Sì, in un certo senso sì. E ad Adriano piaceva molto questa cosa. Non si rendeva bene conto, però, che per certe cose sarebbero serviti finanziamenti, appoggi politici e quant’altro».
Vi sentivate un po’ usati?
«Usati no, anche perché Adriano credeva davvero in quelle battaglie. E, avendolo conosciuto, so per certo che in lui c’è una sorta di ingenua purezza su alcuni temi, una visione utopica del mondo. È un tipo naif, lo è sempre stato. Per fare quello che poi fece anni e anni dopo Beppe Grillo, però, gli è mancata la voglia. Nulla di strano, anche professionalmente è sempre stato un po’ “pigro”...». (...)