L'igiene è diventata un dogma (perché ci facciamo un po' schifo)

Certo, come ha scritto linkiesta.it non siamo mai stati così puliti. Nei sussidiari scolastici degli anni Venti e Trenta del secolo scorso i bambini puliti erano quelli che si lavavano i piedi un giorno sì e uno no e facevano un bagno nella tinozza almeno al sabato o alla domenica (una vera e propria utopia, per molti cresciuti tra le due guerre). Solo pochi anni fa un famoso direttore del Nouvel Observateur, in un elogio in morte di Raymond Aron - grande storico e filosofo di idee completamente diverse dalla sua - per indicarne la nobiltà di spirito e di genealogia lo disse di famiglia «in cui si faceva il bagno da almeno tre generazioni». Nei film western uno dei piaceri cui si abbandonava un pistolero che avesse passato mesi a sparacchiare e rubar mucche era un bagno caldo propiziato da qualche bella fanciulla del Saloon.
Si è passati, in poco meno di un secolo, da un bagno alla settimana (nelle classi medioalte) a una doccia al giorno per tutti. O quasi. Merito, sostiene linkiesta.it del bombardamento mediatico scatenatosi durante la Belle Ếpoque e ripreso incessante, aggiungiamo noi, dopo l’interruzione spiacevole dei pidocchi in trincea.
Possiamo dissentire? Sì, possiamo, prima di tutto perché le campagne mediatiche riescono a raggiungere i loro scopi solo se c’è già un immaginario sociale pronto a raccoglierne i messaggi. La mania della pulizia è nata prima. È nata con Pasteur, che scoprì che i microbi possono essere anche molto dannosi. L’intelligentsia scientista e positivista fin de siècle - nonostante Pasteur fosse un cattolico - si dette a diffondere il verbo dell’igiene con un’energia che travolse a tal punto le persone - soprattutto colte e progressiste - che mai tanti bambini delle classi agiate morirono di tifo come negli anni in cui si vietava loro di razzolare per terra e mettersi le mani in bocca. Non acquisendo anticorpi i tapini erano i primi a buscarsi qualche accidente letale.
Si sviluppò, la mania del pulito, col diffondersi della possibilità di disporre di un locale con vasca nelle abitazioni cittadine: qualcuno ricorderà ancora gli scaldabagno a legna che permettevano all’acqua fumante di vapore di uscire dai rubinetti, così mettendo fuori gioco le fanciulle coi mastelli. Ogni nuova invenzione, si sa, comporta perdite anche gravi.
Questo aspetto dello sviluppo civile produsse una divaricazione ancor più grande che in passato tra città e campagne. Nelle case contadine l’ultimo bagno dell’anno si faceva il giorno della festa dell’uva (fine settembre) e il primo a Pasqua. Per il resto si operava per settori: viso, collo, piedi, braccia e ascelle. Le altre membra dovevano attendere che le canne dell’acqua si sgelassero.
All’inizio degli anni Cinquanta i giovani contadini si stufarono di sentirsi dire dalle sartine che puzzavano troppo e, complice anche la fine della mezzadria, si riversarono nei centri urbani sognando vasche e profumi d’oriente. Perché nel mezzo - a parte la guerra - c’era stato il cinema, che presentava maschi e - soprattutto - femmine come se fossero appena uscite da qualche lavacro per lo più corredato di schiume a copertura di zone interdette alla navigazione della platea.
E a questo punto si crearono diverse scuole di pensiero: i maschi ritennero infatti in un primo tempo che solo il sapone di Marsiglia - quello usato per il bucato - si adattasse al corpo di valorosi combattenti e reduci, e che alle sole donne dovessero essere riservate le saponette alla rosa, al mughetto o altre spezie. (Oh le meravigliose saponette inglesi! poi soppresse dalla Palmolive; e da Camay e Cadum, o dall’insuperabile Lux, il sapone di 9 stelle su 10. La decima era, per tutti, la sola veramente lavata e profumata).
Con gli anni si comprese che il tempo degli eroi era tramontato e che a far la doccia con un sapone (magari liquido) profumato si rischiava perfino di guadagnarci qualcosa. E da allora, dai tempi eroici del primo badedas in un’unica versione, nessuno pensò più che mantenere un certo profumo di sudore o di pelle fosse segno di virilità o - fatte le debite distinzioni - di donna. Pino Silvestre Vidal conquistò in quegli anni le vasche della penisola al pari di un terrificante dopobarba alla menta.
Scent of woman, con Al Pacino (la versione italiana, con Gassman, non vale niente) evoca con leggerezza il tempo in cui la presenza delle femmine si percepiva ancora non perché si fossero inondate di Coty o Dior, ma perché non c’è profumo migliore di quello emanato dall’alba delle loro emozioni.
Abbiamo deciso di evolverci perdendo l’olfatto, ecco perché ci laviamo così tanto. Avere il naso - abbiamo pensato nel secolo scorso - danneggia gravemente la salute. Non abbiamo voluto avere più nulla a che fare con uomini maleodoranti e donne alle quali, in certi giorni, si faceva fatica a stare vicino. A qualcuno dà fastidio perfino il ricordo della naftalina in cui le nonne tenevano, nei loro armadi, i colli di volpe. Generazioni perverse.
I ferormoni che per millenni hanno favorito lo sviluppo della famiglia umana devono oggi essere messi a tacere, sopraffatti da profumazioni che spesso a null’altro servono che a segnalare l’assenza di circolazione microbica sull’epidermide. Abbiamo cessato di amare la nostra cara, antica, domestica sporcizia, non sentiamo più il cuore palpitare alle zaffate diffuse sui tram in primavera dalle braccia alzate per tenersi agli appositi sostegni. Temiamo di essere contaminati dalla vicinanza di un nostro simile. Indossiamo guanti e mascherine. Ci spruzziamo a nostra volta di de-odoranti e ci piacerebbe che anche gli altri si dedicassero alla medesima pratica. Abbiamo timore a grufolarci in terreni melmosi, diamo l’avanbraccio quando abbiamo le mani sporche di terra.
Poi ci facciamo leccare la faccia da cani e gatti e condividiamo con loro il gelato. Forse è un segno di nostalgia per il nostro naso perduto.