La sesta stagione di “Black Mirror” ci fa capire che i mostri siamo noi
Attraverso la lente di un futuro non troppo lontano, i nuovi episodi spogliano il genere umano delle sue ipocrisie
di Fabio Busi
Umano, troppo umano. Ormai la tecnologia non ci fa più paura, è ovunque. Quello che inquieta semmai è l'essere umano e le sue pericolose inclinazioni. Parte da questo presupposto la sesta stagione di “Black Mirror” (Charlie Brooker). Attraverso la lente di un futuro non troppo lontano (oppure di un passato alternativo) i nuovi episodi spogliano il genere umano delle sue ipocrisie, delle sue maschere, spezzano la routine e restituiscono le emozioni di cui siamo fatti. Divorati dai desideri, camuffati in una quotidianità che ci annoia, ma in qualche modo ci rassicura, incapaci di accettare le perdite, logorati da un bisogno di violenza vendicativa. O ancora, attratti morbosamente dall'orrido, sedotti dal male, che molto spesso si rivela intimamente vicino, familiare.
Non sono più le invenzioni a sbalordire. Sono strumenti utili, forse un po’ invasivi. C'è tuttavia un ordito di clausole, che vengono ignorate, e potenzialmente possono distruggere le nostre vite. È la noncuranza delle persone a rendere quei meccanismi così perversi. Attraverso l'agire umano, dispiegano il loro potenziale nefasto. Netflix fa autoironia, l’incubo si annida spesso nel bisogno di intrattenimento senza fine. Ma il mezzo è neutro, sono le vite che esso spia a essere malate, aride, fasulle. Brooker ci dice che i mostri siamo noi.
C'è un’intelligenza artificiale che traduce le esistenze in fiction, androidi che replicano i corpi di uomini in missione spaziale, così da permettere loro di trasferire la coscienza sulla Terra e continuare a vivere in famiglia. Ma anche gli antichi Vhs, che sui loro nastri possono registrare degli orrori impensabili. Infine, un po’ a sorpresa, c'è il paranormale, mutanti (ma i veri mostri sono i paparazzi, così morbosi), diavoli, persino satana. Più del demonio, però, fa paura la volontà sanguinaria di una compunta commessa, che attraverso l’illusione di vendicare crimini o sventarne di futuri, si trasforma in una furia omicida. Una galleria di creature in qualche modo deformi: tutti esseri umani ordinari, banali, quasi noiosi.