«I Verdena? Unici nel loro genere. Non fanno nulla per atteggiarsi»
Francesco Fei ci parla del suo documentario sulla band di Albino. La prima questa sera, venerdì 3 novembre, all’Auditorium di piazza della Libertà. «Nelle loro vite in punta di piedi»
Di Fabio Busi
«Per sempre assente io vivrò. Sai, è meglio così. E riuscirci, dai, si può». Il credo un po’ paradossale dei Verdena è qui, in una ritrosia convinta, sostanzialmente unica nel panorama italiano. Sembra proprio che il loro rock viscerale e senza compromessi faccia il paio con una vocazione potremmo dire montanara, disinteressata ai lustrini dello showbiz, che si ritrova nelle loro vite semplici, tra campanacci e pendii verdeggianti, per poi rifugiarsi a far casino nel famoso pollaio-studio di Albino.
Il regista Francesco Fei è andato da loro per realizzare il documentario “X sempre assenti”, che questa sera (3 novembre) verrà presentato all'Auditorium di piazza Libertà. I biglietti sono esauriti: le proiezioni successive sono l'8 novembre allo Schermo Bianco (Daste, Bergamo) e il 16 novembre al cineteatro di Albino.
X SEMPRE ASSENTI _ Trailer from Lab 80 film on Vimeo.
Come si fa un film su una band così poco mediatica e appariscente?
«L'operazione era difficile sulla carta e lo è stata anche a livello pratico. Due i fattori decisivi: il fatto che io li conoscessi già, li ho visti nascere girando i loro primi clip, “Valvonauta”, “Viba”. E poi il fatto che Luca Bernini, loro manager, è anche un mio caro amico e me ne parlava da anni. “L'unico che può fare un lavoro su di loro sei tu, con te forse potrebbero aprirsi” mi diceva».
Che approccio ha seguito?
«Sono andato lì da loro, completamente solo. Mi hanno accolto bene, sono entrato nelle loro vite in punta di piedi e alla fine sono un po' sparito ai loro occhi».
Cosa racconta il film?
«È una “tranche de vie”, di quando cominciano a provare i nuovi pezzi per la prima volta in vista del tour, dopo sette anni di silenzio. Una sorta di documentario di osservazione, che li coglie in un momento particolare perché era davvero molto tempo che non tornavano sul palco».
Come sono cambiati?
«Io li ho trovati uguali. Forse è cambiata un po' Roberta, ora ha tre bambine; ma non è mutata la grande passione per la musica, da parte di tutti e tre. Ci siamo incontrati dopo quindici anni, ma è stato come ritrovarsi il giorno dopo. Il pollaio era sempre il pollaio, come nel ’98. Forse c'erano degli strumenti in più e un mixer nuovo, ma il mondo Verdena è sempre quello».
E la musica?
«Quando suonano il primo pezzo in saletta viene fuori una potenza incredibile. Io ero presente. Credo che siano degli “animali” dentro, in estinzione, e andrebbero tutelati. Ci mettono una tale passione. Ed è questo il motivo per cui così tanti fan li amano, nonostante non siano chiaramente alla moda. Questa sincerità di fondo, questa pulsione artistica arriva al pubblico».
Ci sono delle interviste?
«No, io per loro “non c'ero”... È un prodotto lontano anni luce dalla moda dei recenti, finti documentari sui musicisti. In realtà quelli sono degli spot promozionali, che raccontano solo quello che bisogna raccontare da un punto di vista pubblicitario. Questo invece non ha filtri: a un certo punto litigano pure».
Alberto è un perfezionista?
«Quando registra e quando suona dal vivo, durante le prove è più dialogante. A livello di concerti nel film c'è solo la data di Livorno, la prima. Mi concentro di più sull'aspetto familiare e il cazzeggio ad Albino».
Com'è il rapporto con il territorio?
«Il protagonista è anche quello. Si sentono i campanacci, le mucche, i cavalli al pascolo».
Come mai sono rimasti così attaccati al loro paese?
«Sono un po’ dei sabotatori di loro stessi. Dal punto di vista commerciale non fanno nulla per crescere e ampliare il loro pubblico. Fanno quello che gli riesce meglio: suonare. Sono dei privilegiati, perché fin da giovani sono stati sotto contratto con una major».
Hanno avuto successo fin da ragazzi.
«Si è creato un rapporto più unico che raro con l'industria discografica. Hanno continuato a fare quello che gli pareva e l'industria li ha lasciati liberi di fare. Anche l'ultimo disco è andato benino, la tournée benissimo».
Apprezzati in Italia e in Europa, ma Bergamo non dovrebbe valorizzarli di più?
«Restano degli outsider perché non vanno a chiedere favori a nessuno. Se qualcuno vuole parlare con loro deve andare ad Albino, lo dimostra anche questo film. Non sono venuti a presentarlo a Bologna, c’era solo Roberta, e così anche all’Auditorium. Non cercano riconoscimento dalla città (ma giovedì 16 novembre al Nuovo CineTeatro di Albino pare che ci saranno, ndr)».
Ma è timidezza?
«No, è disinteresse. Si vede anche sui social, pubblicano pochissimo».
Parlano un linguaggio tutto loro...
«Incomprensibile! Non fanno nulla per atteggiarsi a qualcosa che non sono. Nel film Luca indossa un piumino mezze maniche della Melinda: secondo me questo dice tutto. Mi vesto figo? No. Per questo sono orgoglioso: mi hanno dato la possibilità di raccontare qualcosa di raro, in una maniera inusuale. Non c'è nulla di edulcorato, anche la regia è profondamente vera».
Quali le difficoltà?
«Nel montaggio, perché il lavoro è nato a pezzi. È stato faticoso. I tempi dei Verdena poco si adattano ai ritmi della produzione, abbiamo cambiato tre montatori perché magari passa un mese e mezzo prima che Alberto risponda. Sono stato con loro una quindicina di giorni in estate e qualche giorno a Livorno. Poi ancora una giornata, ognuno nei suoi luoghi, a casa, per il finale. Dove si vedono degli aspetti molto personali, senza che si atteggino in alcun modo».
La distribuzione?
«Per ora niente tv, perché ritenuti troppo di nicchia. Eppure fanno sold out nelle tournée. Queste uscite al cinema rappresentano delle occasioni, al momento le date sono una dozzina. Manca tutto il sud, ma i Verdena sono amati anche sotto Firenze e i fan sono indispettiti: vogliono vedere il documentario. Ah, ci tengo a ringraziare Lab80, che lo distribuisce, perché si sono presi a cuore il progetto».