Perché quando il Sole si oscura capiamo chi siamo davvero
Venerdì 20 marzo, tra le 9:00 e le 11:45 di mattina, la Luna si frappone tra Terra e Sole, oscurando la luce della nostra stella, durante un'eclissi della famiglia Saros. In Italia è possibile vedere l’evento solo parzialmente. Il Sole sarà coperto più o meno per la metà dal nostro satellite (al Nord si arriverà a una copertura di quasi il 70 percento).
Eclisse, ovvero “che manca”. È la luce a mancare, perché un qualche corpo celeste si frappone fra la sorgente - in questo caso il Sole - e il bersaglio - in questo caso la Terra. Gli antichi le temevano come presagi infausti, quasi un disordine improvviso dell’universo, un deragliamento della Luna o un suo ammalarsi quando - per esser noi ad adombrarla - la vedevano tingersi di rame o di sangue. Per me le eclissi sono invece una benedizione, una memoria del presente e della sua forma.
Anni fa, una mattina, mentre dimentico del mondo stavo lavorando al computer, una cincia sul tetto mi richiamò col suo cinguettare appena appena aspro. Mi parve avesse paura. Guardando con apprensione fuori della finestra vidi il mondo abbuiato e ricordai: era iniziata l’ultima eclisse del millennio. Il suo segnale per me: due tre note gialloblu. Perché tutto questo accadesse si erano dati ignaro appuntamento tanti di quegli eventi che è impossibile pensarli tutti assieme: il Sole e la Luna che procedono immemori e ciascuno per conto suo lungo le loro orbite, la Terra che si affaccia nel cono d’ombra e lo attraversa - o la Luna che si traveste da abat-jour -, un Parus maior (la cinciallegra) disponibile nei pressi, la mia distrazione davanti allo schermo, lo scorrere del tempo diviso in secoli e millenni. Stelle, pianeti, orbite, luci, suoni, elementi, forze e la curvatura dello spazio-tempo.
Want to geek out on all the details about today's #SolarEclipse? Look no further than here: http://t.co/UjgmECayXO pic.twitter.com/UzvaDx850C
— NASA (@NASA) 20 Marzo 2015
Le eclissi servono a ricordarci questo: che possiamo continuare a vivere - noi e le cince e i campi - solo perché l’universo intero continua la sua danza attorno a noi. Dall’inizio del tempo, dal Bosone di Higgs che ha fatto esplodere tutto, forse addirittura da quando altri Bosoni di qualche altro ignoto Higgs dettero luogo ad altri universi poi implosi per consentire al nostro di fiorire come una corolla di spazio e di luce, non si era mai data una configurazione di circostanze come quella dell’ultima eclisse del millennio. Una configurazione customized per me. A pensarlo così ogni attimo della nostra esistenza - rami neri contro un cielo limpido d’inverno, albe sul mare freddo, il sole un lampo giallo al parabrise - ci si annuncia come il primo e il più nuovo, cioè l’ultimo, istante del primo giorno di una infaticabile creazione che non riesce ancora ad arrivare a sera.
Ci sono tre scienziati che amo al di sopra di tutti, ma quello cui ricorre di più la mia memoria grata è il greco Eratostene che osservando l’ombra in un pozzo della città di Alessandria riuscì a calcolare la circonferenza della Terra mettendo in relazione l’angolo di quell’ombra con quello di un’altra ombra nel pozzo di un’altra città 5.000 stadi egizi più a sud. Mi hanno sempre affascinato gli uomini capaci di pensare che una cosa da niente come un’ombra implichi se stessi, la Terra, il cielo e il tacito, infinito andar del tempo. Per questo ci sono date le ombre e le eclissi: per farci sentire che siamo - noi, gli ultimi - i primi per i quali è stato fatto il mondo così com’è in quest’ora mista di distrazione e coscienza, di tenebra e luce.