Le proteste degli aborigeni (dopo secoli di soprusi)
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«There is no price on culture». Recita così uno dei tanti slogan che capeggiano su altrettanti striscioni portati da migliaia di aborigeni australiani durante le ultime manifestazioni di protesta. Le campagne dissidenti sono iniziate a seguito delle dichiarazioni rilasciate dal primo ministro Tony Abbott, eletto nel settembre 2013, che si è detto favorevole alla chiusura di oltre un centinaio di villaggi aborigeni nella parte occidentale del Paese, a causa del costo eccessivo gravante sui contribuenti australiani.
Le ultime contrastanti decisioni in merito. Le parole di Abbott sorprendono non poco, alla luce delle prese di posizione del primo ministro al termine dell’anno passato, nettamente a tutela della popolazione nativa dello Stato oceanico. Lo scorso settembre, infatti, il governatore australiano onorò l’impegno preso al momento della sua elezione («Sarò il primo ministro degli Affari Aborigeni») e spostò addirittura per una settimana il suo ufficio in una tenda all’interno di uno dei villaggi delle popolazioni autoctone. Il gesto, più simbolico che politico, venne salutato positivamente dagli aborigeni, certi di aver trovato un interlocutore politico disposto a considerare il loro ruolo nel Paese. Inoltre, a metà dicembre Tony Abbott affermò di essere pronto a «sputare sangue» per tutelare gli aborigeni anche a livello legislativo, fissando come ipotetica data per un referendum il 20 maggio 2017 (cinquantesimo del riconoscimento del diritto di voto per i popoli autoctoni del Paese).
Australians March to Save Aboriginal Communities - http://t.co/TZNGIWkXye - @soit_goes - pic.twitter.com/R1PpX1rROJ #SOSBLAKAUSTRALIA
— Revolution News (@NewsRevo) 20 Marzo 2015
La decisione attuale, già preannunciata da un piano presentato a novembre, viene giustificata da Abbott con il fatto che l’arretratezza di vita degli aborigeni pesa eccessivamente sulle casse dello Stato («Sono senza servizi essenziali come energia elettrica, luce, gas, acqua, alloggi, trasporti, sanità e istruzione»). Insomma, è giusto salvaguardare i diritti degli aborigeni, a patto che si integrino nella società australiana («Non possiamo continuamente sovvenzionare delle scelte di vita, se tali scelte di vita non permettono ai beneficiari di partecipare pienamente alla società australiana»).
La storia della lotta degli aborigeni. Il problema dell’integrazione degli aborigeni è all’ordine del giorno in Australia da oltre due secoli, precisamente dal 1788, anno della colonizzazione inglese del Paese. Al loro arrivo i britannici dichiararono lo Stato oceanico «Terra nullius», marginalizzando da subito i nativi. Attualmente gli autoctoni presenti sono circa 670mila, ossia il 3 percento della popolazione, il 40 percento di essi vive nei territori settentrionali dell’Australia, mentre l’1-2 percento risiede nello stato di Victoria, nell’Australia occidentale, e nell’isola di Tasmania. Alcuni sondaggi delle associazioni umanitarie della zona evidenziano che gli aborigeni australiani hanno un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore al normale.
Stanziatisi circa 60mila anni fa, gli aborigeni vennero descritti dai coloni inglesi come un popolo di cacciatori-raccoglitori, con una cultura fondata su grandi valori spirituali. L’arrivo degli europei portò malattie, espropri terrieri e omicidi, che decimarono la popolazione del posto: tra Ottocento e Novecento, gli aborigeni diminuirono del 90 percento. Fino agli anni Settanta, poi, non vennero riconosciuti come cittadini australiani e, anzi, considerati alla stregua di animali e vegetali. Il tentativo di acquisizione forzata di queste popolazioni da parte degli europei portò alla politica di assimilazione biologica, denunciata a posteriori come “la generazione rubata” (tematica proposta sul grande schermo da Philip Noyce nel 2002, qui): bambini aborigeni di carnagione chiara, figli di unioni miste, vennero sottratti alle famiglie ancora in fasce ed educati secondo i principi dell’educazione occidentale, secondo la legge che prevedeva per legge di isolare gli aborigeni purosangue in riserve.
Soltanto nel 1967 un referendum permise ai nativi australiani di poter votare ed al Paese di emanare leggi che li riguardassero, e nel 1992 una sentenza della High Court australiana sancì la caduta del principio di terra nullius che aveva permesso agli inglesi di definire l’Australia una terra disabitata. Nel 2008 il primo ministro laburista Kevin Rudd rivolse le scuse a tutti gli aborigeni per i soprusi in un discorso ufficiale: «Noi oggi compiamo il primo passo nel riconoscere il passato e nel rivendicare un futuro che abbracci tutti gli australiani. Un futuro in cui tutti gli australiani, di qualsiasi origine, siano partner veramente alla pari, con pari opportunità e con un pari ruolo nel dare forma al prossimo capitolo nella storia di questo grande paese, l’Australia».