Il pittore Maurizio Bonfanti: «La Passione di Gesù è anche la mia, la nostra»
Otto grandi dipinti esposti a Palazzo Creberg, in Porta Nuova, fino al 3 maggio. La solitudine è il filo rosso delle opere
di Paolo Aresi
Lo studio di Maurizio Bonfanti è appena prima dei binari, accanto alla vecchia casa del casellante, a Redona. Si apre un cancellino, c’è un pezzetto di terra, forse un tempo era un piccolo orto. L’uscio porta nelle stanze invase da dipinti, cornici, pennelli, terre, stracci. Bonfanti sorride, è un sorriso mite che trattiene una grande energia. Creativa.
I suoi dipinti parlano spesso di uomini soli che si muovono in luoghi che non si possono decifrare. Come il protagonista di questa passione che discende dalla Passione di Gesù Cristo, che non è una Via Crucis, ma in fondo la rappresenta, fuori dalla devozione e dalla religione in senso stretto.
Gli otto dipinti Maurizio Bonfanti sono esposti a Palazzo Creberg, in Porta Nuova, fino al 3 maggio. Dipinti che rimandano alla vicenda di Gesù, come alle situazioni umane più forti: la morte, la solitudine, il cammino. Il mistero.
C’è un cielo nell’ultimo dipinto: Bonfanti capovolge la prospettiva; ci troviamo dentro alla cavità del Sepolcro e guardiamo fuori l’azzurro. È la speranza? È la resurrezione? Non ci sono risposte, non sappiamo nemmeno se quel sepolcro è vuoto oppure se ospiti ancora la salma dell’uomo che è stato ingiustamente ucciso. A Gerusalemme duemila anni fa come ancora oggi nella Terra Santa. Come in Ucraina. Come in Congo, come in Etiopia, come in Sudan.
Bonfanti non ha dipinto una Via Crucis, ma sicuramente si è ispirato a quella via dolorosa che, in questi anni di grandi progressi e di grande benessere, il mondo di casa nostra tende a camuffare. Vendiamo un’apparenza di sorrisi, risate, sensualità a piene mani, lussi di ogni tipo. Ma l’impressione che resta è di vuoto e desolazione. La si ritrova nei dipinti di Bonfanti.
Quel cadavere coperto da un lenzuolo bianco, quell’uomo dai polsi legati, chiuso tra muri. Quel viandante che cammina in un panorama solitario, le spalle leggermente curve verso un boschetto di olivi. Getsemani è il titolo del quadro. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Come è nato questo ciclo?
«C’è una “Passio” che ho realizzato nel 2005, che lo precede. Nacque dopo un confronto con don Sergio Colombo, il parroco di Redona, mi suggerì dei momenti particolari della Passione di Gesù, fuori dalla tradizionale Via Crucis. Quegli otto quadri si trovano nel Seminario vescovile. Oggi mi sono confrontato di nuovo con questo grande tema, sedici anni dopo. Io sono cambiato, ma anche il mondo è cambiato. E anche i miei quadri».
Non si vede mai il volto del protagonista.
«No, mai. È un uomo, ma la sua identità è celata. Il filo rosso è la sua umanità, è la solitudine. C’è il dipinto dell’Ultima Cena (...)