“Ol teré” (il terreno) e tutte le sue sfumature, in bergamasco
C'è quello da arare, l'arborivo, il boschivo... L’importante, per il nostro dialetto, è non “lassàl indà”
Di Ezio Foresti*
Quando non piove da parecchio tempo, la nostra attenzione si sposta verso il suolo, per capire se e quando potrà dare i suoi frutti. In questi momenti si rafforza il nostro legame con la terra, o meglio, con quell’area più o meno grande del Pianeta che ci appartiene, ol teré.
Come notava lo stesso Tiraboschi, gli aggettivi per definirlo sono infiniti anzi, per dirla con lui, questa parola “è capace di moltissimi aggiunti”. Una ricchezza di sfumature che dipende dalla stretta relazione tra lo stato del teré e la sua potenziale utilità per la nostra stessa sopravvivenza.
Se è un terreno arborìv o boschìv sappiamo che sarà in grado di fornirci la legna per l’inverno, favorendo la crescita degli alberi. Di tutt’altra natura l’aratìv, da destinare a future messi. Di incerta utilità il boschetìv, dove abbondano i cespugli. Con un’ampia parafrasi descriviamo quello vergine, cioè che l’è mai stàcc lauràt. L’ennesima prova che a noi interessa la produttività, da ottenere ovviamente attraverso il duro lavoro quotidiano.
C’è da guardarsi infatti dal cornìv, che nasconde al suo interno l’insidia delle rocce. Oppure dal màgher, troppo sfruttato e incapace di offrire copiosi raccolti. Peggio ancora il moiàch, paludoso e insalubre. Parlando di esposizione alla luce, sappiamo che se è dal vach, vaghégn o a roèrs di sole ne vedrà ben poco.
Per quanto riguarda le lavorazioni, l’efficace scoldà ‘l teré significa renderlo fertile dopo il raccolto, attraverso il concime e la semina di “alcune biade”. All’opposto, smagrì ‘l teré equivale a sfruttarlo troppo, indebolirlo al punto da non renderlo più fecondo.
Un’attività scriteriata che viene anche descritta come lassàl indà, cioè abbandonarlo al suo destino. Il che non è contemplato dal nostro codice di comportamento, perché è il contrario di tutto quello che ci hanno insegnato.
* in memoria
Ol tré, a proposito delle sfumature. Scrivere il bergamasco? L'è malfà, come l'è malfà leggerlo, al pari di tutti i dialetti. Infatti gli studiosi sono più propensi a chiamarlo "parlata": chi lo sa, perchè lo ha imparato in famiglia, parli. E gli altri devono arrangiarsi, perdendo però tante sfumature.