L'intervista

Luciano Carminati: «Il mio sogno? Suonare il baghèt davanti al Papa»

Sindacalista di Casnigo in pensione, autodidatta e nipote del mitico Giacomo Ruggeri, è presidente dell’associazione dedicata allo strumento a fiato

Luciano Carminati: «Il mio sogno? Suonare il baghèt davanti al Papa»
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di Bruno Silini

Il segreto del baghèt, la cornamusa bergamasca, è soffiare, schiacciare e suonare. Tre cose da fare tutte insieme, in perfetto sincronismo, aggiungendo una buona gestione del fiato per non perdere autonomia respiratoria. Luciano Carminati, in tutto questo, è un maestro.

Partiamo dalla parola “baghèt”. Che significa?

«Deriva da “baga”, la sacca dello strumento in pelle di capra o pecora non conciata che si schiaccia per fare entrare l’aria nella diana, la canna del canto e nei due bordoni (“orghen”) dove escono due note fisse a un’ottava di diversità».

C’è differenza tra il baghèt e la zampogna?

«Il baghèt è nell’elenco delle cornamuse europee: la gaita galiziana, la Great Highland Bagpipe scozzese, la musette francese, le uilleann pipes irlandese, la Marktsackpfeife tedesca. Ci sono anche alcune cornamuse che si trovano nell’Est europeo. La cornamusa, a differenza della zampogna, è uno strumento completo».

In che senso?

«Nella cornamusa c’è la parte della musica che si realizza attraverso la diana e c’è la parte dell’accompagnamento garantita dai due bassi. Nella zampogna questo è possibile solo con due suonatori: il primo suona le armonie dei bassi, l’altro suona le note. Detto questo, la zampogna è uno strumento antico molto bello, interessante e con un suono particolare».

Come ha imparato a suonare?

«Maestro fu mio zio, Giacomo Ruggeri di Casnigo, detto Fagòt. Era l’ultimo suonatore di baghèt dell’arco alpino ancora in grado di spiegare e di raccontare quello che è uno strumento con più di mille anni di storia. Il ricercatore Valter Biella, attingendo dalle memorie di mio zio, ha riportato in vita vecchi strumenti diventati patrimonio della continuità musicale per i nuovi suonatori, come il sottoscritto».

Che tipo era suo zio?

«Un uomo molto umile. Era un contadino. Quando smise di lavorare vendette tutto andando ad abitare, per scelta, nel solaio di una casa di riposo. Ci stava bene. Di notte riposava in una branda e di giorno girava nei boschi. A raccontarlo così sembra un orso anaffettivo, in realtà era molto buono ed era bello stare con lui. Oltre al baghèt, aveva la passione dei programmi scientifici alla tv».

Suona solo il baghèt?

«La mia passione musicale nasce attraverso la banda del paese, dove suono le percussioni: rullante, tamburo, piatti. Sono un amatore, non ho studiato musica, però ho in dono un senso del tempo che con le percussioni è fondamentale».

Il baghèt non è proprio uno strumento per fare una serenata romantica.

«Direi di no, anche se c’è un’eccezione da raccontare».

Prego.

«Era più o meno l’una di notte quando cinque baghètèr (me compreso) hanno suonato sotto il davanzale di (...)

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