L'intervista

La studiosa Maria Teresa Brolis: «Un uomo del Medioevo oggi sarebbe rattristato»

L'analisi della bergamasca, esperta dei secoli XII-XIV e autrice di importanti volumi di storia medievale tradotti anche all’estero

La studiosa Maria Teresa Brolis: «Un uomo del Medioevo oggi sarebbe rattristato»
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di Bruno Silini

Si campa scrivendo libri di storia medievale? Nel caso di Maria Teresa Brolis (classe 1959), studiosa bergamasca del Medioevo italiano, la risposta è un assoluto «no». Una situazione che include nel nostro Paese anche i medievalisti più noti: pure loro difficilmente vivono con i diritti d’autore, salvo due o tre eccezioni.

I suoi libri quanto hanno venduto?

«Il novanta per cento dei miei studi è destinato a biblioteche, riviste specialistiche o fondazioni storiche e perciò la distribuzione è rivolta a un pubblico più ristretto. Tuttavia, per la divulgazione storica, il mio libro Storie di donne nel Medioevo (ed. Il Mulino), con la prefazione di Franco Cardini, è andato molto bene con le sue 3.500 copie vendute. E ne chiedono ancora...».

È stato tradotto anche all’estero?

«La McGill-Queen’s University Press di Montreal ne ha fatto una versione in inglese e la Tantor Media un audiolibro».

Si è mai cimentata nella fiction con cornice medievale?

«Racconto la Storia, amo il genere biografico, ma non sono capace di scrivere romanzi storici o sceneggiature. Però ho collaborato con Francesco Fadigati, un bravo e giovane autore, nonché insegnante, che ha scritto due romanzi ambientati nella Bergamo medievale. Ho pure accettato un lavoro di consulenza per La7: esperienza interessante».

Lei ha contribuito a sfatare un pregiudizio storico sulla condizione femminile nel Medioevo, ritenuta passiva e asservita al maschio. È corretto?

«Un contributo piccolo, ma convinto, almeno in riferimento ai secoli XII e XIII. Ci sono arrivata grazie soprattutto a grandi maestri. Partirei da Pietro Zerbi, della Cattolica di Milano, il quale negli anni Ottanta mi propose una tesi proprio sulla concezione della donna in Pietro il Venerabile, grande abate di Cluny che ha scritto una straordinaria lettera di consolazione a Eloisa, l’amante e poi moglie di Abelardo, il noto filosofo».

Parlava di maestri, al plurale...

«Un grazie di cuore va anche a Franco Cardini, che mi ha concesso grande amicizia e stima fin dal 1986. Poi Attilio Bartoli Langeli, carissimo amico che mi ha aiutato a pubblicare un manoscritto duecentesco, contenente l’elenco di quasi duemila donne iscritte alla Misericordia Maggiore di Bergamo. Ma ci pensa? Duemila donne che hanno aderito a un’associazione pubblica nel pieno Medioevo. Le novità più sorprendenti sulla figura femminile sono avvenute attraverso lo studio di documenti notarili: testamenti, atti di compravendita, elenchi di beni che riguardano la vita quotidiana delle donne tra il XII e il XIV secolo nell’Europa occidentale; sono emerse tracce consistenti di dinamismo e protagonismo».

Ma le fonti narrative del tempo non sembrano esaltare la figura femminile?

«Con una battuta, possiamo dire che gli “aridi” documenti della burocrazia del tempo rivelano nuove prospettive che i testi narrativi spesso nascondono».

Perché ha scelto questo periodo storico?

«Appena iscritta all’università volevo studiare storia contemporanea, ma il docente non era così bravo come quello di storia medievale. Dunque, come sempre accade, le scelte della vita sono legate all’incontro con veri maestri».

C’è un valore radicato nel Medioevo, oggi perduto, che invece andrebbe riscoperto?

«Il rapporto con Dio. Pensiamo a Francesco d’Assisi: per lui non esisteva un contrasto fra il Creatore e le creature; solo per questo non ha temuto di abbracciare la povertà. Un rapporto con un Dio che si crede vivo, presente (e non astratto) non solo vince la morte, ma rende più intensa la vita».

Sul denaro che differenze ci sono, se ci sono, tra la civiltà medievale e quella contemporanea?

«Anche nel Medioevo c’erano persone avide di denaro, basta leggere la Divina Commedia per conoscerne molte. Però la brama di possesso era moderata dalla consapevolezza di vivere in una società più comunitaria, che compensava l’avidità con azioni solidaristiche (...)

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