A processo per armi clandestine, assolto dopo 8 anni: «Ora sia riconosciuta la mia innocenza»
Fabio Mangiovini è finito nei guai nel 2015. Solo in Cassazione è riuscito a dimostrare la sua estraneità a ogni accusa che gli era stata mossa
di Mattia Cortese
Tutto era cominciato nel 2015, quando a Bologna i carabinieri avevano trovato un fucile mitragliatore nel bagagliaio di un'auto. Erano partite indagini che avevano portato a processo un autista Atb di Bergamo, la moglie infermiera e il cognato, accusati di raccolta di armi da guerra. Nell'inchiesta, con gli stessi capi d'accusa, ci erano finiti anche il fratello dell'autista, l'armaiolo Fabio Mangiovini, e sua moglie Raffaella Maffeis.
A distanza di otto anni, la definitiva sentenza della Cassazione (datata 17 ottobre 2023) - dopo l'assoluzione di Maffeis in Appello - ha però appurato che Fabio Mangiovini era innocente in quanto «il fatto non sussiste». L'uomo ci ha contattati per poter raccontare la sua storia. E, soprattutto, sottolineare come sia stato assolto.
Le accuse all'armaiolo
«Nel 2015 i carabinieri, durante un'indagine, hanno trovato armi non regolari a mio fratello e l'11 giugno di quell'anno sono venuti anche nel mio laboratorio, dove ne hanno trovate altre su cui lavoravo per via della mia professione - spiega Mangiovini, difeso nel processo dall'avvocato Gianluca Quadri -. I problemi sono arrivati con il perito della Procura, che, affiancato ai Ros di Brescia, ha calcato la mano sostenendo che non fossero disattivate e che alcune avessero la matricola non leggibile. Quando il pm si è sentito dire che erano armi da guerra e che il nostro era un traffico, forse non intendendosene del tema, ha preferito agire subito richiedendo gli arresti: sono finito prima in prigione e poi ai domiciliari».
Dopo l'ispezione dei carabinieri, contro l'armaiolo furono formulati diversi capi d'accusa, tra cui anche quello di aver spostato, senza dichiararlo, delle armi che stava sistemando da casa al laboratorio. Un reato che è andato in prescrizione e contro il quale al tempo aveva deciso di non fare ricorso a causa delle spese onerose che avrebbe dovuto sostenere.
«Le armi in quel caso erano mie e di mia moglie, le avevo portate da casa al laboratorio, le avevo smontate e le stavo sistemando. Secondo loro andavano comunque segnate a registro come quelle dei clienti, noi abbiamo contestato questa versione ma è stata poi data ragione all'Accusa in Aula», dice oggi. Nel gennaio 2020 ci fu la prima sentenza con rito abbreviato, nella quale il gup comminò al fratello autista 3 anni e 4 mesi, 3 anni alla moglie di questo e un anno e 4 mesi al cognato. Fabio Mangiovini ricevette invece due anni e anche la moglie fu condannata, ma entrambi con pena sospesa.
La coppia decise quindi di fare ricorso e, l'11 novembre 2022, arrivò la sentenza della Corte d'Appello che assolveva Maffeis. Confermava però la condanna per raccolta illegale di parti di armi da guerra e armi comuni da sparo clandestine al marito, ma unicamente per tre delle 23 armi indicate in totale nel capo d'imputazione. Nel dettaglio, una pistola semiautomatica Uzi, una carabina semiautomatica Mosin Nagant e un'altra marca Fal, classificate dal perito dell'Accusa come clandestine. Ciò in quanto, secondo l'accusa, non portate al Banco nazionale di prova per l'operazione di "bancatura" entro 30 giorni dall'importazione.
La questione della "bancatura"
«Erano arrivate dalla Svizzera da un'armeria di Milano, che me le aveva poi affidate per il mio mestiere - specifica Mangiovini -. Erano in regola con i documenti e le importazioni alla dogana, ma dovevano ancora essere giudicate idonee dal Banco di prova della Val Trompia. L'importante, comunque, era che io non le mettessi in circolazione. Il perito, però, ha ritenuto che io non potessi detenerle, in quanto gli articoli non avevano ancora l'idoneità, una tesi che però è stata confutata a processo».
La Corte di Cassazione, infatti, nelle motivazioni della sentenza ha stabilito che le armi erano state importate dall'armeria milanese che, con l'avallo dell'Agenzia delle dogane, le aveva consegnate a Mangiovini per il successivo inoltro al Banco nazionale di prova. Un'operazione, quest'ultima, che la legge non prevede debba essere immediata. Inoltre, nella sentenza si chiarisce come l'Agenzia delle dogane abbia facoltà di inviare le armi al Banco o, in alternativa, «può delegare tale operazione all'importatore» e che «non vi sarebbe alcun divieto di delegare un armaiolo autorizzato a verificare le armi in vista dell'invio al Banco di prova».
Tutto regolare
I giudici hanno dato ragione alla Difesa, che sosteneva quindi come le armi non fossero state distolte dalla procedure di invio all'ente, ma fossero sotto esame di Mangiovini per verificarne prima la conformità. «Pertanto, non potevano considerarsi clandestine, in quanto era ancora in corso l'iter per le operazioni di bancatura; inoltre, di tale circostanza l'autorità di pubblica sicurezza era al corrente, avendo rilasciato le apposite licenze», si legge nelle motivazioni, che fanno riferimento a una nota del Ros del 5 giugno 2016.
«La sentenza ha stabilito che il fatto non sussiste e che quella d'Appello è illogica - conclude Mangiovini -. Tra l'altro, io sono stato subito riconosciuto dai carabinieri, sulla base di controlli e intercettazioni, come estraneo ai fatti e ci tengo a ribadire che non ho avuto mai nulla a che fare con le questioni che vengono contestate a mio fratello. Tanto di cappello alle forze dell'ordine per la professionalità e l'umanità dimostratami, lo stesso non posso dire per alcuni magistrati e giudici. L'importante ora è che, dopo tutti questi anni, si sia riconosciuta l'innocenza mia e di mia moglie».
Hanno preso una pena maggiore questi che non hanno fatto in pratica male a nessuno che l'africano con il machete che ha rapinato sui freni e ferito all'addome un giovane. Ma gente ma vi svegliate o cosa ??? Ma che giudici abbiamo??