Ex imprenditore di Castione a processo per bancarotta fraudolenta: «Una vendetta di mia moglie»
Un 41enne, già in carcere per altre questioni, sostiene che la consorte abbia fatto fallire apposta la ditta dopo aver scoperto la sua infedeltà
Un'ex imprenditore 41enne di Castione della Presolana, D.F., si trova alle battute finali del processo che lo vede imputato per bancarotta fraudolenta.
Il pm Carmen Santoro, come riportato oggi (mercoledì 20 novembre) dal Corriere Bergamo, ha chiesto una condanna di 4 anni e 2 mesi, ma lui si dichiara innocente e ha spiegato che sarebbe stata la moglie a mandare in fallimento la ditta, dopo aver scoperto la sua tessera del night club.
L'imputato in carcere
L'uomo sta attualmente già scontando tre anni in carcere per un cumulo pene di vecchi reati del 2014, di lieve entità e legati a precedenti relazioni sentimentali. In passato aveva avuto l'affidamento in prova ai servizi sociali per due volte, ma erano arrivate in entrambe le occasioni delle revoche, dovute la prima volta all'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari per la bancarotta di cui è accusato, a inizio 2023, la seconda a delle dichiarazioni che la donna aveva fatto ai carabinieri dopo aver scoperto l'infedeltà del coniuge.
Contestato il fallimento di due imprese
Secondo la versione della Procura, D. F. avrebbe svuotato i conti di due società, di cui una intestata alla moglie, anche se per la guardia di finanza di Clusone, che ha condotto le indagini, l'amministratore di fatto di quest'ultima era ancora lui. Sulla base di quanto ricostruito dai militari, dal 2018 al 2021, con una serie di prelievi ritenuti sospetti, l'imputato avrebbe azzerato le casse della prima ditta, che contenevano 261mila euro, e facendo sparire 150mila euro di beni materiali.
Per la seconda impresa, di cui appunto dalle carte sarebbe titolare la consorte, la Procura contesta la mala gestione, con altre operazioni di dubbia legalità, come la vendita di otto veicoli alla ditta di un altro soggetto, ritenuto una testa di legno e per cui il magistrato ha chiesto 2 anni e 8 mesi. Questo perché appunto la moglie, a cui formalmente è ricondotta la proprietà dell'azienda, ha disconosciuto l'operazione e spiegato che i mezzi erano stati venduti sottocosto, anche in maniera piuttosto evidente.
Agli atti anche le mail, con cui è il 41enne a comunicare con i fornitori, e un foglio in bianco trovato sul suo computer, che reca la firma e il timbro della moglie, in modo tale, secondo la pm, che potesse in realtà gestire lui la ditta.
Per la difesa non ci sono prove
Tuttavia, l'avvocato Rossella Repeti ha presentato il suo assistito come un professionista, che continuava ad avere contatti proprio in virtù di questo, ma che non gestiva direttamente la società, lasciando l'onere alla moglie. I 261mila euro, prelevati nel giro di quattro anni, sarebbero serviti a mantenersi e comunque per la legale non ci sarebbero prove di trattativa con i fornitori o accessi in banca. Infine, l'effettiva vendita degli automezzi sarebbe data dal prezzo basso a cui erano stati ceduti, che proverebbero la genuinità della trattativa.