Incidenti, figli morti, disgrazie. E grazie

Piano con l'amore di Dio mica tutti son Sergio Bernardini

Piano con l'amore di Dio mica tutti son Sergio Bernardini
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Ci sono varie categorie di santi. Anzi, ogni santo è una categoria a sé. Però ce ne sono alcuni che ti vien voglia di essere come loro - ad esempio san Francesco o i coniugi Beltrame Quattrocchi che erano nobili e ricchi - ma poi ce ne sono altri che ti fanno dubitare persino dell’amore di Dio. Per esempio, Sergio Bernardini e Domenica Bedonni, di cui è in corso la causa di beatificazione (ma ci permettiamo di suggerire l’idea che se la burocrazia celeste si desse una mossa potrebbero essere già santi da un pezzo). Perché dunque la storia di questi due - e soprattutto quella del marito - rischia di farci dubitare dell’amore di Dio? Cominciamo dall’inizio.

Lui nasce a Falanello di Sassoguidano (Modena) il 20 maggio 1882 da Giulio e Cunegonda Barbuti, primogenito di due figli. Già una madre che si chiama Cunegonda non depone a favore di una vita normale. Falanello di Sassoguidano, poi, oggi è al centro di un parco Regionale, ma allora doveva esser peggio di Lourdes o di Nazareth, perso com’è su per le montagne del Frignano. Comunque è il meno. La famiglia gestisce il più antico mulino della zona e fino ai vent'anni Sergio vive tranquillo e beato. Beato mica tanto, in realtà, perché oltre al mugnaio faceva anche un sacco di altri lavori. Doveva aver avuto antenati bergamaschi. O forse gli piaceva così. Dopo di che - nel 1907, a 25 anni - si sposa. Nascono Mario, Medardo e Igina. E il giovane padre esclama: «Dio mi ha dato tutto. Quanto è buono!». E fin qui, nulla da obiettare.

Ma il bello deve ancora venire, perché dall’anno successivo e per quattro di fila - fino al 1912 - pare di assistere allo sterminio della famiglia: «volano via», come dice Sergio, in rapida successione, suo padre, sua madre, il fratello, la moglie e i tre bambini. E lui dice: «Sia benedetta la Sua volontà». Altro che virtù eroica, verrebbe da dire. Perché, oltre ad aver perso la famiglia, è oberato dai debiti, dato che allora non c’erano, nonché l’esenzione dai tickets, nemmeno i tickets. E così decide, come facevano tanti all’epoca (ne ha parlato anche il Pascoli in una poesia, Italy, che nomina anche alcuni paesi della zona) di emigrare in America.

A questo punto un sito scrive: "Ma rimpatria subito, dopo un anno: «L'America non è fatta per me: temevo per la mia fede»."
Ma un altro entra nei dettagli: “Raggiunge l'America e trova lavoro in una miniera dell'Illinois. Pochi mesi dopo rimane vittima di uno scoppio in miniera. Ferito gravemente ad una mandibola è costretto per diversi mesi in ospedale. Trascorre la convalescenza presso una famiglia di italiani. Poi, anche in considerazione dell'ambiente religioso ostile ai cattolici, che sente come un pericolo per la sua fede, alla fine del 1913 decide di rientrare in Italia, accontentandosi del denaro dell'assicurazione per pagare i debiti. In segno di riconoscenza al Signore per il ritorno in patria, dona un grazioso lampadario a gocce alla chiesa di Sassoguidano, che ancora oggi decora la chiesa”.

Per riconoscenza di che? - verrebbe da dire a noi altri tizzoni d’inferno - della mandibola in frantumi o delle assicurazioni che hanno il braccino sempre troppo corto? Come se non bastasse, lì a Sassoguidano trova il parroco pronto a suggerirgli di farsi prete. Ma lui non ne vuol sapere. Trova “una brava giovane” - come si dice nel miglior linguaggio cattolico - e la sposa. Lei 24 anni, lui 32. Data del matrimonio: 20 maggio 1914. Un anno e quattro giorni dopo il Piave avrebbe mormorato.

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Domenica, la brava giovane, prima voleva farsi suora. Poi però aveva accettato il consiglio di uno zio di incontrare quel vedovo e, pregando, aveva esclamato: «Ebbene sì, Signore, se è tua volontà. Poi dammi tanti figli e, se a te piace, siano consacrati a Te». Visto l’interesse diretto alla faccenda, il Signore rispose immediatamente e con la solita esagerazione: i figli furono 10, dei quali otto si sarebbero consacrati al Signore - cinque tra le suore Figlie di S. Paolo, una tra le Orsoline, due sacerdoti tra i Cappuccini (il più piccolo diventerà Arcivescovo di Smirne in Turchia). Degli altri due non è dato sapere, ma verrebbe da pensare che si siano almeno ammalati gravemente.

Fine delle sciagure? Nemmeno per idea. Oltre alle malattie di rito un incendio, nel 1922, distrugge mandria e fienile, costringendo marito e moglie a ricominciare daccapo. Eppure, nella loro casa, dicono che ci sia sempre stato «un piatto di minestra ed una pagnotta» per tutti i poveri che venivano a bussare sapendo che anche prima - durante la guerra - quella casa era stata come il mare, per dirla con Fra Galdino, a cui accorrono i fiumi. «E dato che la carità non è fatta solo di pane e minestra, come se non bastassero gli otto figli già donati al Signore, Sergio e Domenica nel 1963 “adottano” un seminarista nigeriano, pagando i suoi studi a Roma con la loro modesta pensione». Si chiama Felix Alaba Job e nel 2006 lo troveremo Arcivescovo di Ibadan e Presidente della Conferenza Episcopale della Nigeria. Dice lei «Iddio ci ha tanto benedetti: non lo ringrazieremo mai abbastanza» e aggiungeva: «vorrei avere altri figli per avere altri sacerdoti e altri missionari».

Magari questa potremmo anche non riportarla, però ci sembra che vada comunque detto che nel 1957, mentre si stava recando alla S. Messa nella chiesa dei Cappuccini, all'incrocio di Via Monteobizzo con Via Giardini, Sergio fu investito da un'auto guidata da un giovane. Diagnosi: grave trauma cranico con prognosi di mesi in ospedale e una lunga cura che lo debiliterà al punto da fargli esclamare: «Questa botta mi accorcia la vita di dieci anni». Prosegue il sito: «Ma ciò mette ancor più in risalto la sua preoccupazione di non adire le vie legali per non pregiudicare l'avvenire civile del giovane che ha causato l'incidente. Importante la testimonianza della madre del giovane». Domenica e Sergio vivono insieme 52 anni. Lui muore il 12 ottobre 1966 e lei lo raggiungerà il 27 febbraio 1971.

È famoso un episodio - forse leggendario, ma non del tutto da escludere come vero, viste le caratteristiche temperamentali della santa - della vita di Teresa d’Avila che un giorno, nell’attraversare un torrente a dorso di mulo, fu sbalzata in acqua dalla bestia recalcitrante. Con una gamba lesionata e con le vesti fradice si rivolse al Signore dicendo: «Con tutti i problemi che ho, mi mancava che mi mandassi anche questo». Risposta: «Teresa, è così che tratto i miei amici». Controrisposta: «Signore mio, a questo punto non mi stupisce che tu ne abbia così pochi, se quelli che hai li tratti in questo modo».

Era solo per dire a papa Francesco che abbiamo tutte le ragioni per credere che Sergio e Domenica siano santi. Però, come santa Teresa, quando ci viene ripetuto: Il Signore vi ama!, il Signore vi ama! a noi ci prende un po’ di non si dice paura, ma qualche timore brividoso. Perché se poi - ci troviamo a pensare sottovoce - in quella Sua strana specie d’amore, ci fa strage a raffica di figli e parenti, fa saltare in aria una miniera solo per noi e le nostre mascelle ancora inspiegabilmente sane, ci fa investire all’angolo fra via Monteobizzo e via Giardinio perché possiamo mostrare il nostro amore al destino di un neopatentato irresponsabile, se ci fa capitare tutto questo, dicevamo, non è detto che noi per tutta risposta gli offriamo un lampadario a gocce o adottiamo un seminarista in Africa. Lo sai come siamo fatti, Signore: vogliamo sì diventare santi, ma con qualche riguardo. Siamo fragili, Padre Santo. Molto fragili.

 

Bibliografia ampia e ragionata

http://www.coniugibernardini.it/biografia/cronologia.html

http://www.parrocchiadispezzano.it/images/pdf/UNA_COPPIA_ESEMPLARE.pdf

http://www.preghiereagesuemaria.it/santiebeati/servi%20di%20dio%20sergio%20bernardini%20e%20domenica%20bedoni.htm

 

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