L'Albero della vita di Expo e tutti quelli belli prima di lui
Se ne sente parlare molto, in questi giorni, eppure il significato dell’Albero della vita, emblema del Padiglione Italia, rischia di perdersi tra i commenti che rimproverano alla struttura di essere poco piacevole, soprattutto quando non è animata dagli spettacoli di luci e acqua, e tra gli apprezzamenti, talvolta enfatizzati, alla sua originalità. Sono opinioni pienamente legittime, ma per una volta vorremmo andare al di là delle osservazioni contingenti e seguire una strada diversa, quella che lega il simbolo di Expo con la storia dell’arte e l’iconografia.
Con i suoi 37 metri di altezza, il gigante di larice siberiano e acciaio si trova al centro di Lake Arena e al termine del Cardo, uno dei due assi principali dell’“accampamento” Expo. La struttura è stata realizzata dal Consorzio «Orgoglio Brescia», da Coldiretti ed è sponsorizzata dalla Pirelli. L’Albero della vita, come è stato spiegato dagli organizzatori dell’Esposizione, s’ispira al progetto di Michelangelo per la pavimentazione di Piazza Campidoglio, risalente agli anni Trenta del Cinquecento. Il disegno preparatorio dell’artista individua una figura a losanghe culminante in una stella a dodici punte, simboleggiante le costellazioni, esattamente come l’Albero del nostro Padiglione. Il trasferimento della superficie piana del disegno alla struttura verticale di Expo suggerisce l’unione dell’orizzontalità della terra con la verticalità del cielo, unione che a sua volta rimanda all’interazione fondamentale che permette lo sviluppo della vita sul Pianeta.
Il tema dell’ “Albero” non si esaurisce, tuttavia, con l’opera architettonica e ingegneristica, ma comprende anche la Tree of life Suite, scritta dal musicista Roberto Cacciapaglia, per l’occasione direttore della britannica e prestigiosa Royal Philarmonic Orchestra. Il maestro accenna ad alcuni elementi che lo hanno guidato durante la composizione dell’opera: «Nell’idea e nella figura dell’albero ho sentito qualcosa di estremamente antico, ancestrale e insieme di grande modernità. Una corrispondenza in cui la musica si collega a questo simbolo e riporta alle leggende di Orfeo, che attraverso il potere del Suono incantava i delfini e faceva danzare gli alberi».
La connessione tra la figura dell’albero e la vita non è certo un’invenzione di Expo e non c'è chi non lo sappia. Essa costituisce infatti un archetipo universale, cioè una di quelle associazioni tra realtà e simbolo che sono naturali nell’essere umano, proprio in quanto tale. In tutte le culture, da quelle mediterranee a quelle celtiche, fino a quelle dei nativi d’America, l’albero rappresenta la ciclicità delle stagioni, e dunque delle età della vita, che si rigenerano anche dopo la morte. Per gli antichi metteva in contatto il mondo sotterraneo dei defunti con la terra, regno dei viventi, e con il cielo, sede degli dei. Tale connessione è ben esemplificata da un dipinto della tomba egizia di Sennedjem, un onorato artigiano che lavorava nella necropoli della Valle dei Re: la dea del cielo Nut esce da un sicomoro e offre acqua e cibo al defunto. La dea-albero raggiunge il trapassato e, nell’offrirgli delle vivande, garantisce la sua sopravvivenza oltre la morte. Non è un caso se Nut era associata dagli Egizi alla rinascita. Si credeva infatti che la divinità inghiottisse il dio del sole Ra ogni giorno al tramonto e poi lo partorisse di nuovo all’alba. L’unione tra la dea e l’albero richiama alla memoria, mutatis mutandis, anche il mito di Dafne. La bellissima ninfa non voleva saperne niente di Apollo e della sua corte, e tanto pregò e tanto si disperò che fu trasformata dal padre Peneo, dio fluviale, in un alloro. La metamorfosi, che come ogni trasformazione coincide con una morte riplasmata fino a corrispondere a una forma rinnovata di esistenza, è meravigliosamente raffigurata dall’ opera di Bernini, Apollo e Dafne, uno degli esempli più belli del Barocco italiano. Lo scultore illustra esattamente il momento del passaggio da ninfa ad albero, descritto da Ovidio:
«Aiutami, padre», - dice [Dafne]. – «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, trasformandola, questa figura per la quale sono troppo piaciuta!» Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza. (Da Ovidio, Metamorfosi I vv. 457-552, a cura di Piero Bernardini Marzolla e con un scritto di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1979)
A questo punto non stupisce che l’albero, simbolo della vita e delle sue trasformazioni, raffiguri anche il succedersi delle generazioni: parliamo, ovviamente, degli alberi genealogici, croce e delizia per chi cerca un quartino di sangue blu tra i propri antenati.
Dalla mitologia all’iconografia cristiana. L’Albero della vita è (forse) soprattutto conosciuto per essere citato nella Bibbia. Se ne parla per due volte, cioè all’inizio, in Genesi, 2.9: «E l’Eterno Dio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli a vedersi e i cui frutti erano buoni da mangiare; in mezzo al giardino vi erano anche l’albero della vita e l’albero della conoscenza del Bene e del Male»; e alla fine, in Apocalisse 2,7: «Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: a chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al Paradiso di Dio». Entrambi i passi rendono chiara una cosa: l’Albero della vita sta nel Giardino di Eden e soltanto i progenitori Adamo ed Eva, per quanto ne sappiamo, hanno potuto vederlo con i loro occhi. Da qui, dalla Bibbia, e passando attraverso l’opera mistica Lignum vitae Christi (1260) del Santo francescano Bonaventura da Bagnoregio, l’Albero della vita è diventato uno dei temi iconografici dell’arte sacra. Bonaventura esorta all’imitazione della vita di Cristo e per rendere più efficace il suo incoraggiamento decide di (ri)raccontare la storia di Gesù con l’ausilio dell’immagine dell’Albero. Si tratta di una scelta di certo non casuale e che doveva colpire a fondo lo spirito immaginativo dell’uomo medievale, che si dice essere stato tanto più fertile del nostro. Il Lignum di Bonaventura e dell’iconografia da lui fondata ha il corpo crocefisso di Cristo come tronco e dodici rami, dodici come il numero degli Apostoli, su cui vengono illustrati gli episodi della vita di Gesù attraverso dei «tondi» dipinti (i frutti). Sui rami bassi è narrata l’infanzia e la maturità, sui centrali quelli della Passione e su quelli superiori la Glorificazione in cielo.
L’Albero della vita bergamasco (e gli altri). Bergamo può menar vanto di avere uno degli “Alberi della vita” più belli che si possano trovare in Italia. Parliamo, ovviamente, del maestoso affresco della Basilica di Santa Maria Maggiore, attualmente al centro di una serie di incontri patrocinati dalla Fondazione MIA, presso la Basilica stessa (il più recente, a cui abbiamo assistito, si è tenuto sabato 16 maggio). L’opera è stata realizzata da un pittore bergamasco purtroppo sconosciuto alle cronache e noto con il nome di Maestro dell’Albero della vita. È datato tra il 1330 e il 1347, cioè a ridosso della terribile epidemia della peste nera, e dell’origine del Decameron di Boccaccio.
Alla base del tronco dell’Albero sono raffigurati, dalla sinistra verso la destra dell’osservatore, Santa Chiara, San Francesco e la Vergine, San Bonaventura (davanti al tronco), e poi il committente Guidino Suardi (inginocchiato e più piccolo rispetto agli altri santi), San Giovanni, San Lodovico di Tolosa e Sant’Antonio. Sui rami sono riportati dei cartigli contenenti i nomi dei quarantotto “capitoletti” che costituiscono il Lignum di San Bonaventura, e al di sotto di questi si possono ammirare altrettanti tondi esplicativi. La lettura avviene dal basso verso dall’alto, dalla sommità dei rami di sinistra fino alla sommità del corrispondente ramo di destra. L’affresco è stato purtroppo intaccato dal portale di legno e da altri interventi risalenti all’età Barocca, tra cui gli stucchi incornicianti la tela del Giudizio Universale di Pietro Liberi (1661), rimossa per restauro, e che normalmente nasconde la parte superiore dell’affresco.
Quello bergamasco non è l’unico esempio di “Albero della vita”. In Italia sono conservate altre opere simili, tutte trecentesche, come il dipinto su tavola di Pacino di Buonaguida, commissionato dalle Clarisse e realizzato tra 1305-1310, attualmente nella Galleria dell’Accademia a Firenze, e poi quello di Taddeo Gaddi, nel refettorio della Chiesa di Santa Croce, al di sotto del quale si trova l’affresco, sempre di Gaddi, dell’ Ultima cena.
Dal sacro al profano. L’ultimo “Albero della vita” artisticamente degno di nota è quello deliziosamente profano di Gustav Klimt (1905-1912). L’opera fu commissionata dal facoltoso industriale Adolphe Stoclet, che la volle per la sua residenza di Bruxelles, in particolare per abbellire la sala da pranzo (già, la sala da pranzo). Il fregio si compone di tre pannelli. Da sinistra verso destra, abbiamo L’Attesa, in cui è raffigurata una donna con lo sguardo spinto in lontananza, L’Albero della vita, al centro, e L’Abbraccio (o il Compimento), che prelude al famoso Bacio. Lo sfondo dorato proietta la sequenza in uno spazio e in un tempo assoluto, cioè avulso da realtà; le forme geometriche, i cerchi e i triangoli, rimandano alla differenza complementare tra uomo e donna e l’Albero, con il suo viluppo serpentino di rami dorati, sembra suggerire che la storia del singolo individuo è anche la storia di tutti.