Rivoli di fumo si alzano in lontananza: l’origine del fuoco è coperta dalle colonne di Palmira, antico splendore e vanto archeologico siriano, l’ultimo nome a cadere nelle mani dello Stato Islamico, che qui è arrivato ieri sera, uccidendo circa 100 soldati lealisti e minacciando le bellezze artistiche di questo sito d’origine antichissima. Le foto degli antichi splendori siriani messi a repentaglio dagli uomini del Califfato sono niente: ben più cruente sono le foto di decapitazioni e crimini compiuti all’indomani della vittoria, una barbarie ormai nota all’Occidente almeno da quando quel nome, Isis, si ripete minacciosamente sui giornali. Ma dietro a quelle foto c’è una sentenza che in tanti temono a dire: lo Stato Islamico avanza e vince ancora, capace di sostenere la lotta sia in terra siriana (dove appunto ha conquistato Palmira) sia sul suolo iracheno, dove pochi giorni fa è entrata a Ramadi, mettendo ancor più violentemente il suo piede sulla strada per Baghdad.
Le contromosse Usa. Se n’è accorto anche Obama che la strategia americana non sta bastando. Fino ad oggi, il cammino percorso dal Pentagono è stato insufficiente: si è cercato di sostenere, prima di tutto, la lotta degli iracheni, lasciando che Baghdad includesse nelle sue file le minoranze sunnite così da non lasciarle nelle mani del Califfato. I raid dovevano essere soltanto un corredo ad un lavoro fatto sul campo dai lealisti, addestrati dalle forze Usa. Ma il progetto non ha girato, anzi, sembra aver prodotto solo controindicazioni. Perché del premier sciita Al Abadi i sunniti non si fidano, e preferiscono aspettare l’arrivo dei terroristi dell’Isis piuttosto che coalizzarsi con l’esercito. Che, dalla sua, ha ben poco valore con cui poter contrastare le avanzate del Califfo, vista anche la frequenza con cui le forze di Baghdad girano i tacchi e scappano di fronte ai colpi di mitra dell’Isis (in tanti credono che, addirittura, questi soldati non siano pagati). L’America pensa alle contromosse: di sicuro, dopo la buona riuscita dell’azione che ha portato all’uccisione di Abu Sayyaf, le operazioni con truppe speciali sul territorio aumenteranno, ma è ancora da capire quanto. E in più si farà sempre più forza sull’inclusione dei sunniti nelle linee militari irachene.
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Perché Palmira. Resta il fatto che l’Isis sta guadagnando terreno in due direzioni chiave, Damasco e Baghdad, e questo nonostante le voci che parlano del ferimento di Al Baghdadi e della morte di Al Afari. La strategia adottata dallo Stato Islamico è stata mirata, come dalle prime azioni condotte un anno fa. Così gli jihadisti hanno puntato verso Palmira, che è un centro importante per i governativi siriani vista la sua posizione (è la porta geografica verso l’est del Paese), le sue scorte di materiale bellico nelle vicinanze e, ancor più, i grandi campi di gas naturale e petrolio ad Al Shaer. Una caduta definitiva del sito archeologico avrebbe una rilevanza non indifferente sul morale dei siriani. Nella terra di Assad, ora Isis controlla 95mila chilometri quadrati e nove province, e hanno conquistato un polo importante nel cuore del Paese, allontanandosi per la prima volta dai confini nord ed est. Se prima erano, prevalentemente, nelle aree desertiche della Siria, ora invece fanno sentire molto di più il loro fiato sul collo delle grandi città vicine al confine col Libano e alla costa.
Sulla strada per Baghdad. Quanto, invece, a Ramadi, si è già detto: l’obbiettivo rimane Baghdad, ora distante soltanto 100 chilometri. Gli Stati Uniti invieranno nell’immediato mille missili anticarro, con cui aiutare l’Iraq a scongiurare l’arrivo nella capitale. Ma sanno che questo genere di strategia è da rivedere.