Di Ezio Foresti*
C’è un verbo bergamasco che assomiglia molto al nuovo nome di un social molto amato, con l’elisione della vocale finale. Mèt, mettere, è però molto più versatile e adattabile alle vicende quotidiane. Già da solo assume una discreta varietà di significati, più o meno presenti anche in italiano, ma insieme agli avverbi arriva a coprire aree di senso molto diverse.
Mèt fò vuol dire mettere in mostra, esporre, quando si parla di quadri o atti pubblici, ma mèt fò di ciàcole equivale secondo il Tiraboschi a “spargere tra la gente cose non vere”, attività in cui il social di cui si parlava prima sembra essere maestro.
Al suo opposto, o quasi, c’è mèt vià, dove invece che palesare si nasconde o ripone qualcosa, per esempio la tovaglia dopo il pasto o il denaro per la dote della sposa. Nei confronti di una persona, diventa invece il poco simpatico sinonimo di sepoltura.
Anche mèt zó non è da meno, anzi, è ancora più eclettico. Vuol dire deporre, come si fa con un oggetto che viene lasciato, ma anche partorire, con un’accezione che forse non è più riscontrabile nel linguaggio comune.
Mèt zó do paròle è quello che stiamo facendo in questo momento, mèt zó ü pèrsech è piantare un albero da frutto. Infine, mèt zó in de öle o in asìt è una preparazione culinaria.
Da giù passiamo a su: mèt sö lo usiamo quando giochiamo uno o più numeri al lotto, o quando decidiamo l’importo di una scommessa. Ma anche quando indossiamo un abito, apriamo un negozio o addirittura ci divertiamo ad aizzare una persona. Un impiego particolare, ancora oggi diffusissimo, è quello della voce verbale metém, che si antepone a ogni ipotesi non ancora suffragata dai fatti.
Metém che ‘l sìes vira è la concessione che facciamo a chi ci racconta un fatto dalla dubbia credibilità, pronti a smontarlo con la nostra logica implacabile. Così il nostro interlocutore impara che contro di noi l’è mèi mètes mia.
*in memoria